Ora, a debita distanza, un bilancio si può fare. Chi, dal 19 febbraio in poi, si aspettava ampie commemorazioni giornalistiche, sulle televisioni e sulla stampa generalista, per il primo anniversario della morte di Umberto Eco, sarà probabilmente rimasto deluso. I commenti sono giunti principalmente dal nucleo di testate e ambienti politici e intellettuali che Eco aveva assiduamente frequentato in vita. E ciò probabilmente si giustifica in ragione del ben più ampio spazio — e su fonti di ogni estrazione ideologica e culturale — che la morte dello scrittore piemontese aveva ottenuto un anno addietro. Non tutto il male vien per nuocere, però, se il tempo trascorso e il minore sensazionalismo consentono di elaborare un pensiero critico meno sbrigativo e più approfondito.
Per la parte più ampia dell’opinione pubblica, Umberto Eco è essenzialmente l’autore de Il nome della rosa, il sorprendente best-seller italiano del 1980, che, complice una quasi egualmente nota riduzione cinematografica, sarà ben diffuso e venduto per oltre un decennio. Smuoveva interesse il clamoroso successo di Eco: finalmente un italiano, finalmente alle prese con un pilastro della letteratura italiana degli ultimi due secoli (il romanzo storico), dopo anni di poco nota pubblicistica nel circuito delle riviste d’avanguardia o di interesse accademico.
Per quella parte di opinione pubblica e classe dirigente che si identificava nelle testate del gruppo editoriale l’Espresso, Eco era, poi, l’editorialista e ironico censore che firmava articoli colmi di riferimenti letterari, pur sempre declinati secondo quella stessa sensibilità “pop” e immaginativa che Eco aveva rimproverato a Mike Bongiorno e che, invece, da sé cavalcava con bonaria auto-indulgenza.
Negli ultimi due decenni, come invero spesso accade ai letterati di una certa fama, era divenuto l’intellettuale capace di reinterpretare a piacimento e infinite volte il proprio ruolo. Supporter dei “girotondi” arcobaleno che riempivano le piazze e svuotavano le urne negli anni del secondo governo Berlusconi, conferenziere e filologo che negli Stati Uniti e in Germania non disdegnava elevati sermoni su temi d’attualità (diritto, religioni, Internet), opinionista che si vestiva da accademico super partes, e che poi negli show televisivi non mancava di essere espressione di parte. Una parte, inoltre, talvolta autoreferenziale, convinta che la bontà delle proprie tesi fosse sufficiente a se stessa per emergere e che, in caso contrario, fosse il volgo incolto, rude e sottoposto a lavaggio del cervello ad essere stolido e disattento.
L’Eco letterariamente più creativo è forse proprio quello dei primissimi anni Sessanta, contaminatore di linguaggi, seguace del verbo strutturalista e del primato dell’interpretazione sia sul fatto sia sull’idea (in quanto mediazione tra entrambi). L’Eco del grande successo fu forse soprattutto l’uomo giusto al posto giusto: esaurita la temperie culturale degli anni Sessanta e Settanta, continuava a portarsi dietro le vestigia dell’impegno, ma ridendo sotto i baffi, scartando tanto l’analisi di una sconfitta storica, quanto l’esigenza di uno sguardo non elitario al presente. L’Eco degli ultimi due decenni continuava a produrre interessanti e forbite analisi storico-linguistiche, esegetiche, letterarie, con una devozione più forte delle apparenze per l’aneddoto letterario che spiega l’ideologia dell’autore e dei suoi tempi (Dire quasi la stessa cosa, del 2003, e il precedente Tra menzogna e ironia, del 1998, sono obiettivamente piccoli gioielli di ermeneutica divulgativa).
Eppure sembrava schiacciato nel suo cinismo ideologico: a differenza dell’ostinato difensivismo socialdemocratico di Habermas, Eco si professava al più incline al centro-sinistra, quasi gli desse fastidio che gli si chiedesse conto di scelte così inoppugnabili e, per certi versi, resistenziali. Anche la produzione narrativa degli ultimi anni risente di un generale arretramento prospettico: nel 2000 c’è Baudolino, che cerca di ravvivare i fasti de Il nome della rosa ma non vi riesce; nel 2015, l’incerto Numero Zero, che critica la “macchina del fango” della stampa (specialmente quando il fango schizza in casa propria, direbbe il filosofo Savater); unica eccezione, il criticatissimo Il cimitero di Praga, nel 2010, per il quale ad Eco, a onor del vero immeritatamente, sono rimproverate addirittura simpatie antisemite.
Amplissima bibliografia, perciò. Narrativa, saggistica, libri istantanei a margine di una conferenza, raccolte, volumi illustrati … un frenetico peregrinare o avere mille posizioni diverse stando seduti sempre sulla stessa sedia? Ai posteri l’ardua sentenza, ci pare che ebbe a dire qualcuno.