Il poeta argentino Héctor Viel Temperley (Buenos Aires, 1933-1987) è considerato dalla critica uno degli autori più importanti della letteratura latinoamericana degli ultimi decenni e proprio per questo va riconosciuto all’editore Raffaelli il merito di aver reso disponibile al pubblico italiano, grazie alla traduzione di Edoardo Balletta, un’opera così singolare e visionaria come Ospedale Britannico. Fin dalle prime pagine del volume il lettore si trova già in medias res alla sola lettura del primo titolo di queste brevi e lancinanti prose poetiche: “Ospedale Britannico. Mese di Marzo del 1986”. Si tratta infatti del luogo e del mese in cui il poeta verrà operato per un tumore cerebrale incurabile che lo porterà alla morte l’anno successivo. I frammenti poetici che descrivono tale esperienza vengono a mescolarsi con altri testi già pubblicati precedentemente, in un movimento per cui il poeta sembra procedere per aggiunte e riprese continue, in una sorta di creazione incessante che accade sulla pagina (p. 18): “Mi madre es la risa, la libertad, el verano” (“Mia madre è il riso, la libertà, l’estate“) come leggiamo nel frammento che apre Ospedale Britannico e che poi ritroveremo incastonato nel più ampio testo successivo.
Nella convalescenza ospedaliera di Temperley il mondo pare trasfigurato: il poeta, con la testa bendata, è immerso in un’estate luminosissima in cui avviene l’incontro con la madre, proiettata in una dimensione celeste (p. 20): “Pabellón Rosetto, larga esquina de verano, armadura de / mariposas: Mi madre vino al cielo a visitarme. / Tengo la cabeza vendada. Permanezco en el pecho de / la Luz horas y horas. Soy feliz. Me han sacado del / mundo. / Mi madre es la risa, la libertad, el verano” (“Padiglione Rosetto, ampio angolo d’estate, armatura di / farfalle: Mia madre è venuta in cielo a visitarmi. / Ho la testa bendata. Rimango nel petto della Luce ore / e ore. Sono felice. Mi hanno tolto dal mondo. / Mia madre è il riso, la libertà, l’estate“).
Anche la sofferenza del poeta viene trasfigurata in una progressiva immedesimazione con la passione di Cristo, come possiamo leggere nei frammenti intitolati “Christus Pantocrator”, in cui lo sguardo dello scrivente si concentra su di una cartolina recante l’immagine di un Cristo del XIII secolo (p. 26): “Entre mis ojos y los ojos de Christus Pantokrator nunca / hay piso. Siempre hay dos alpargatas descosidas, / blancas, en un día de viento. / Con la postal en el zócalo, con Christus Pantokrator en / el espigón larguísimo, mi oscuridad no tiene hambre / de gaviotas” (“Tra i miei occhi e gli occhi di Christus Pantocrator non / c’è mai spazio. Ci sono sempre due ciabatte scucite, / bianche, in un giorno di vento. / Con la cartolina sul battiscopa, con Christus Pantocrator / sul chiodo lunghissimo, la mia oscurità non / ha fame di gabbiani“).
In questo ritorno verso la propria origine in cui si mescolano visioni allucinate e mistiche, sogni e ricordi d’infanzia, la sofferenza dell’autore si tramuta in accettazione e offerta, come sottolineato dal poeta argentino Hugo Mujica nella densa prefazione a Ospedale Britannico (p. 13): “La gratitudine, nella sua radicalità, è riconoscimento dell’altro, è estasi, uscita dal sé, espansione, e ora, quando questo altro è Cristo, l’espansione sarà risurrezione, incarnata risurrezione che fa scoppiare la carne”. È nella risurrezione di Cristo che la poesia di Viel Temperley trova, fin dalle prime pagine, il suo fuoco centrale; quasi che anche la grammatica e la sintassi di Ospedale Britannico fossero lo specchio della tensione profonda che anima quest’attesa (p. 42): “Soy el lugar donde el Señor tiende la Luz que El es” (“Sono il luogo dove il Signore tende la Luce che Lui è“).
In questa prospettiva luminosa di risurrezione si chiude — aprendosi però verso ulteriori orizzonti — l’ Ospedale Britannico di Viel Temperley, con un’immagine di rara bellezza (p. 50): “El verano en que resucitemos tendrá un molino cerca / con un chorro blanquísimo sepultado en la vena” (“L’estate in cui resusciteremo avrà un mulino vicino con / un getto bianchissimo sepolto nella vena“).