Negli articoli precedenti ho cercato di seguire quelli che possiamo definire dati di fatto. Adesso mi permetto di portare alcune mie considerazioni, per quel poco che possono valere. Sono considerazioni che si collocano su due ordini. Il primo ordine, più soggettivo e discutibile, è nel merito delle scelte fatte, e non fatte, dai nostri politici.
Sono convinto della bontà del primo testo approvato alla Camera, sono convinto dell’utilità, anzi della necessità storica della riabilitazione dei nostri soldati fucilati, del loro inserimento all’Albo d’oro dei caduti. Sono convinto della necessità di una richiesta di perdono da parte dello Stato nei confronti di quelle che, oggi, a tutti gli effetti si configurano come vittime.
Anche limitandoci a una semplice presa d’atto “quantitativa” di quanti subirono processi e condanne (a morte o al carcere) per diserzione, automutilazione, disubbidienza, sbandamento; anche solo guardando a quanti soldati subirono una condanna per avere scritto a casa la loro paura, la loro percezione della guerra, o a chi finì in galera per aver lanciato un limone nella trincea nemica, appare a mio avviso lampante una amara verità, tanto più amara se messa a confronto con il lessico, per la stragrande maggioranza di ispirazione e ideologia fascista, dei sacrari, dei monumenti ai caduti, delle targhe commemorative: la grande maggioranza dei sudditi del Regno d’Italia non era pronta per quella guerra. La subirono, vi furono costretti con la forza. Un soldato italiano su 12 subì un’incriminazione, ossia fu sospettato di avere infranto le regole in modo grave. È una cifra incredibile, spaventosa per un esercito moderno, perché l’emanazione dell’autorità statale, che ha una delle sue più chiare incarnazioni proprio nelle forze armate, già di per sé è un deterrente fortissimo all’infrazione delle regole.
E a mio avviso la convinzione di alcuni storici secondo i quali “scagionare” i disertori o chi infranse le regole andrebbe a disonorare quanti quelle regole le seguirono, andando a morire magari per ordini stupidi e incomprensibili, mette a fuoco solo mezza verità: la storia del Novecento (anche in alcune pagine molto vicine a noi) dimostra come sia paradossalmente molto facile assecondare il potere, riconoscersi parte del sistema, non opporvisi. Se poi il sistema di cui facciamo parte non è democratico e al tempo stesso prevede sanzioni durissime per chi infrange le regole, ecco che ubbidire, anche a costo di rischi gravissimi, può essere più semplice.
Exempli gratia: nei primi mesi del 1918 un fante in prima linea impegnato in un’operazione rischiosissima sapeva molto bene (sia per la trasmissione orale delle notizie da soldato a soldato che per la martellante propaganda dei “fogli di trincea”) che:
A) sottrarsi agli ordini avrebbe comportato rischi gravissimi per sé (fino alla fucilazione sommaria) e per i suoi commilitoni (tenendo conto che le compagnie erano il più delle volte formate da soldati della stessa provenienza territoriale, capiamo quanto il pensiero di mandare a morte per decimazione i compaesani potesse essere inibente nei confronti di azioni illegali).
B) una sua diserzione avrebbe avuto pesanti ripercussioni sui familiari rimasti a casa, nei confronti dei quali l’autorità pubblica favoriva quella che oggi potremmo definire una gogna mediatica.
C) i soldati “passati al nemico” o anche soltanto presi prigionieri non godevano di trattamenti di favore nei campi di prigionia, perché, a differenza delle altre potenze belligeranti, l’Italia non volle deliberatamente sostenere gli italiani internati in terra austro-ungarica con cibo e vestiari. Risultato di questo atteggiamento nei confronti di italiani fu che dei circa 300mila prigionieri della rotta di Caporetto addirittura 100mila morirono di fame e stenti: 1 su 3.
Di fronte a tali consapevolezze la disubbidienza era spesso figlia della disperazione, al pari di molte ubbidienze.
Il pugno di ferro nei confronti della truppa nasceva da un’urgenza reale, ossia tenere insieme, già prima di Caporetto, e in particolare nell’inverno tra 1916 e 1917, una compagine di uomini che non reggeva più una situazione, specie sul fronte del Carso, francamente insostenibile. E questa insostenibilità era in buona parte frutto di strategie obsolete messe in atto dal Comando supremo (pensiamo soltanto alla 11 spallate all’Isonzo), frutto di una distanza eccessiva fra la truppa e i propri ufficiali, frutto di carenze strutturali e materiali che gravavano sul fisico e sul morale dei soldati.
Diaz nel dicembre del 1917 scrive una lettera preoccupata al presidente Orlando, nella quale tra l’altro si legge: “Fra queste popolazioni rurali [del Veneto] si intensifica una irritazione decisa contro la guerra […] che si concreta in affermazioni stereotipate del genere seguente: ‘La guerra è voluta dai signori e dai generali; è fatta col sangue dei contadini […], della sconfitta sono colpevoli gli ufficiali […]‘, nulla importa se vengono gli austriaci, ‘che trattano bene i paesi occupati’ […]”. Questo è solo uno tra i tanti esempi, interessante perché si muove da una presa d’atto del Comandante stesso delle forze armate italiane, che testimoniano il malessere e la resistenza interna opposta in tanti modi a una guerra per molti, se non per i più, distante, incompresa.
Sarebbe davvero complicato capire i perché di questa resistenza alla guerra, maggiore in Italia che in altri paesi europei (discorso a parte andrebbe fatto per la Russia).
Si potrebbe ipotizzare l’influenza di larga parte della Chiesa sulle fasce popolari: alcuni parroci in Veneto non fecero mistero dal pulpito di auspicare il ritorno dei cattolici Asburgo al posto degli anticlericali Savoia.
Si potrebbe dire che il malessere per la guerra sia stato una conseguenza della guerra stessa, un effetto della condizione iniziale dell’esercito, solo con il tempo portatosi alla pari, a livello di equipaggiamento, con gli altri eserciti (giusto per fare un esempio, i primi mesi i soldati italiani ancora non avevano l’adrian, l’elmetto di fabbricazione francese che arrivò sul nostro fronte solo nell’ottobre del 1915, più di quattro mesi dopo l’inizio del conflitto!), e inizialmente costretto a colmare il ritardo “materiale” con una compensazione di “carne da cannone” che fece dell’esercito italiano il più numeroso, in rapporto alla popolazione nazionale.
O si potrebbe ancora (ma le ragioni possibili e concorrenti sono ovviamente ancora tante) ammettere come forse l’Italia era fatta, mentre in quei primi cinquant’anni di unità gli italiani erano ancora rimasti fermi al palo, tanto per italianizzazione linguistica, quanto per italianizzazione delle coscienze, con l’ovvio risultato che per molti “neonati” italiani tanto la leva in sé quanto l’andare a combattere a centinaia di chilometri da casa, in terre sconosciute, e per motivi poco chiari, fosse qualcosa davvero difficile da accettare.
Ma in verità il nodo della questione non è sulla motivazione o meno del popolo italiano alla guerra, quanto, tornando a noi, sulla riabilitazione e sul perdono da dare o da ricevere.
A mio avviso riabilitare i soldati fucilati, che fossero colpevoli o meno, decimati o rei confessi, è necessario perché, in ultima analisi, le colpe, anche quando vi furono, ebbero se non come causa principale di certo come concausa determinante la condizione creata non dico volontariamente, ma perlomeno colposamente, da chi era al comando di quei soldati. Disubbidire fu, non certo per tutti ma per molti, non un’azione deliberata dettata da motivi ideologici, ma un’azione disperata dettata dall’istinto di conservazione. E, come detto prima, credo che lo stesso istinto di conservazione abbia spinto altri soldati a ubbidire, e a continuare a ubbidire.
In altre parole, credo che, in certi contesti e in certi momenti, al fronte siano venute meno tutte le condizioni di “adesione alla realtà” che potessero permettere valutazioni razionali e ponderate da parte dei soldati. Ubbidire o non ubbidire in quei contesti deve essere stata una questione soggetta a variabili solo in parte dipendenti dalla volontà del singolo soldato, quali il clima della truppa, la presenza di ufficiali capaci, la presenza di una chiara possibilità di infrazione delle norme…
La presenza, tanto nella truppa quanto tra i sottufficiali, dell’ancora poco indagato fenomeno dei suicidi di trincea (anche di questi le documentazioni sono da ricercarsi da fonti alternative a quelle ufficiali, quali ad esempio le cronache e i diari dei pievani rimasti in zona di guerra dopo Caporetto) è un altro segno evidente di quanto il dilemma etico tra l’ubbidire e il disubbidire, tra il vivere e il morire, potesse logorare le menti di quegli uomini, fino a costringere alcuni di loro a scegliere la terza via, la morte volontaria piuttosto che la morte in combattimenti fuori da ogni logica apparente o piuttosto che la morte diffamante di fronte al plotone di esecuzione o nei campi di prigionia nemici.
È esattamente in questo punto che a mio avviso risiede il vizio di forma rispetto all’atteggiamento dimostrato dalle proposte di rettifica della commissione Difesa del Senato: sembra che, alla fine, non si voglia ammettere che lo Stato, in quanto frutto di una convenzione complessa tra individui, e pertanto soggetto alla fallibilità propria dell’essere umano, possa sbagliare.
Sembra che proprio non si possa riconoscere che, in quel particolare frangente, chi era alla guida del governo e delle forze armate dell’Italia ha sbagliato. Ha commesso degli errori, gravi e reiterati. E i soldati italiani sono stati vittime di quel sistema, a priori rispetto alle scelte che hanno fatto.
(3/4 – continua)
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