NEW YORK — Chi sa chi ha detto veramente (Talleyrand, Chateaubriand?): “Non hanno imparato nulla e non hanno dimenticato nulla”, e chi sa se questa frase fosse proprio rivolta originariamente ai Borboni… Ma insomma, è un aforisma che appartiene alla serie del “Se non è vero è ben trovato”; e poi i Borboni, poveretti, si prestano (magari ingiustamente) a essere icone di incorreggibilità.



Per dire: il borbonismo è molto forte, nell’opinione mediatico-intellettuale che ancora domina il discorso pubblico, oggi negli Stati Uniti; basti pensare al tono neo-borbonico (non hanno ancora dimenticato le elezioni, e non hanno imparato quasi nulla nel frattempo) di organi come il quotidiano The New York Times e la rivista The New Yorker, che stanno  contribuendo a trasformare New York in una delle più grosse metropoli di provincia sulla scena internazionale (qualcuno dei citatori seriali del New York Times si è accorto che The Wall Street Journal è un’alternativa credibile, e abbastanza moderata?).



E’ interessante notare, d’altro canto, come la velenosità anti-presidente Usa sia invece molto minore in Italia e, direi, nell’Europa in generale (maggiore distanza dal teatro degli avvenimenti? Maggiore sensibilità politica — l’efficienza è un altro discorso — dell’Europa? Differenza fra il protestantesimo americano e il cattolicesimo italiano? Antico cinismo italico-opportunista del “Franza o Spagna, purché se magna”? Va’ a sapere; e poi, è probabile che si tratti di una mescolanza di tutti questi fattori)

Ora, quella che sto per menzionare è probabilmente l’ultima delle preoccupazioni del presidente Trump (che è più intelligente di quel che pensino i neo-borbonici, ma non è certamente un intellettuale), e invece dovrebbe essere un suo urgente tema di riflessione: cioè, lo stato di crisi polarizzante della vita intellettuale negli Stati Uniti. Un fenomeno profondo e grave, che minaccia il tessuto stesso dell’Unione (altro che “sovrastrutture” rispetto alle “strutture”, come dissertava la vulgata marxistica!). Una vasta minoranza della cittadinanza statunitense (che una volta, al tempo delle categorie scolastiche, si sarebbe chiamata di “sinistra”) nega alla risicata maggioranza — che una volta si sarebbe detta di “destra” — il ben dell’intelletto (anche perché questa minoranza laicistica tende a non vedere la componente spirituale della vita intellettuale). E la maggioranza dal canto suo si arrocca in difesa, e sottolinea troppo marcatamente il lato settario-moralistico della sua spiritualità. 



Al centro della vita mentale degli Usa c’è un enorme fossato (una marana, si direbbe a Roma), o palude indistinta, dove ogni discorso sfumato affonda nel nulla, col rischio che non soltanto l’umanesimo (questo ormai è diventato un termine archeologico) ma anche il senso di umanità, sia relegato alla categoria del “c’era una volta”, del pre-moderno. Un primo tentativo di migliorare il tono (ma questa è semplicemente una descrizione, non una prescrizione) potrebbe essere la buona vecchia ricerca dell’equilibrio. Come per esempio: evitare, da parte di chi predica costantemente contro l’odio, di usare il linguaggio dell’odio (“Odio questa gente. Sono stupidi ed egoisti. Vadano a farsi fottere. Che perdano il lavoro, si chiudano in casa, e crepino”: cito testualmente una delle e-mail di protesta, riportate in un articolo sul New York Times del 6 aprile, contro un opinionista di quel giornale, Nicholas Kristof  — progressista al disopra di ogni sospetto — che in un articolo precedente aveva osato esprimersi in modo non completamente antipatetico verso l’elettorato di Trump).  

E poi: evitare l’uso sproporzionato del termine “resistenza” per designare l’opposizione al governo (non sono il primo a notare che si tratta di una scelta di non ottimo gusto, per chi abbia presente che cosa sia stata storicamente la Resistenza in Europa). E inoltre: evitare l’abuso del termine “razzismo” per bloccare qualsivoglia discorso (sono forse io il primo a notare che lo slogan autorevolmente diffuso “Odio il razzismo” ha già la connotazione violenta che è tipica del razzismo?).

Tutto ciò, si dirà, è un invito abbastanza ovvio al dialogo, al compromesso, alla moderazione. Ma proprio questo è il nodo: siamo arrivati, negli Stati Uniti, al punto in cui certi innocui richiami risultano quasi inauditi. D’altra parte, i problemi delle università (che troppo spesso diventano cortili della ricreazione in cui monelli di varie età giocano a fare i Khmers Rouges) e di altri protagonisti della creatività artistica e intellettuale sono più complessi, e richiedono un discorso a parte.