Alle origini della letteratura europea esiste un’opera di Eschilo che mette in scena l’idea di confine e il rapporto con lo straniero, mi riferisco ai Persiani. La scena è quella di Susa dove i vecchi consiglieri e la regina Atossa, vedova di Dario e madre di Serse, si interrogano sul destino dell’armata che è andata a portare la guerra ai greci. La regina ha fatto un sogno premonitore e ne è sconvolta. Ma il sogno è confermato quando ricevono da un messo la notizia della sconfitta persiana di Salamina, del massacro dei soldati nell’isola di Psittalia e della fuga di Serse. Viene evocato Dario che preannuncia ancora sciagure in Beozia ed a Platea. Allo scomparire del fantasma entra Serse, lacero e piangente, che ricorda tutti i guerrieri morti e la distruzione del suo esercito.



Eschilo mette in scena la grande vittoria greca di Salamina dalla parte dell’altro. Un altro che sembra però avere le stesse tradizioni greche, è uno straniero che ha forti caratteristiche di un greco. Il dio persiano è Zeus, nomos la legge, barbaroi i persiani chiamano se stessi. Lo straniero al tempo stesso è un estraneo ma ha qualcosa di simile. È al margine di un confine. Diverso e uguale, che attrae e respinge ma che diventa indispensabile perché è proprio a partire da questo rapporto sul confine che il noi può essere definito. È interessante notare che questa, che è la prima tragedia giuntaci, mette in scena una reggia straniera orientale, così come accade con il primo poema, l’Iliade, come accade con Erodoto che nelle Storie narra della guerra d’Ellade contro i persiani. Come se all’origine della propria cultura per i greci fosse indispensabile misurarsi con lo straniero. Sul margine della costa asiatica i greci sono sotto il dominio dei persiani, a sua volta la cultura achemenide è segnata da caratteri greci. Ma è là che si definiscono i tratti e il confronto determina il noi. È proprio in questo spazio in cui le culture si mescolano che le identità sembrano profilarsi marcando un rapporto anche conflittuale con l’altro. 



Un’altra tragedia eschilea parla indirettamente di confini, è l’Agamennone. Il sacrificio della figlia Ifigenia è conseguenza dell’offesa che Agamennone ha fatto ad Artemide, la dea sorella gemella di Apollo, figlia di Zeus e di Leto a volte identificata con Selene ed Ecate in quanto personificazione della Luna. Diana del pantheon latino, è la dea della caccia, protettrice degli animali selvatici delle fonti e dei ruscelli. Ma è anche dea che sana e salva, protegge le fanciulle nel parto. Dea dei passaggi. In quanto salvatrice sottrae Ifigenia al sacrificio sostituendola con una cerva e portandola in Tauride dove diventerà una sua sacerdotessa. È una dea con un nome non di origine greca, forse asiatico, dunque dea del margine, del confine, così come al confine di mondi si situa il suo regno. Per questo è limnatis, perché è dea degli argini e dei litorali, di quei luoghi che stanno fra terra e mare. Figura di confine che sottolinea la fragilità del limite ma ne conferma l’importanza rendendolo distinguibile e riconoscibile.



C’è un grande libro di Seamus Heaney, The Spirit Level, dove l’Agamennone, la tragedia nel nome di Artemide, compare assieme ad una poesia dedicata a Brigida, la santa irlandese derivata da Brigid. Brigid  è la dea celtica della guarigione, del fuoco, dei fabbri, della poesia, della saggezza e della fecondità; è protettrice dei poeti, fabbri e guaritori. In suo onore viene celebrata la festa di Imbolc (da fine gennaio alla prima quindicina di febbraio), la festa del passaggio alla primavera, nella quale si versava latte sulla terra come simbolo di fertilità. Come Artemide è la dea del passaggio e del margine. È il margine che marca le esistenze al confine, come Artemide, come la stessa cultura greca alle origini, terra di passaggio fra occidente ed oriente in cui i linguaggi, i simboli, le significazioni si spostano continuamente alla ricerca di una possibilità di traduzione. Ecco allora che Artemide, Diana, Brigid, Santa Brigida, rappresentano un archetipo comune, sono le figure dei confini e dei margini, sono padrone di più territori perché mettono a contatto culture diverse che proprio grazie al contatto riescono ad autocomprendersi. È nel nome di Artemide che i passaggi e i contatti possono essere accettati.

Un concetto della dialettologia strutturale può venire qui in aiuto ed essere trasferito nell’ambito degli studi culturali, il concetto di diasistema. Il concetto è stato introdotto da Uriel Weinrich (Languages in Contact, l’Aia, Mouton 1963) intendendolo come una struttura linguistica che è il risultato di varietà confinanti e utilizzandolo nello studio del contatto e dell’interferenza linguistica. In questo senso il diasistema serve a interpretare quelle zone d’ombra che sono i confini linguistici, ricordando che i confini non esistono come dato oggettivo e la realtà ci offre solo un continuum che altro, la politica o l’ideologia, suddivide in varietà discrete. Il concetto è stato utilizzato fra gli altri da Luigi Heilmann per spiegare alcune situazioni linguistiche di confine come quella pavese e quella ladina di Moena. Ma la cosa interessante è che Heilmann interpreta il diasistema come la zona in cui più sistemi si influenzano reciprocamente. Un sistema esercita una qualche pressione su di un altro sistema spingendo il secondo a riorganizzarsi perché non può fare a meno di tener conto del primo. Dunque nelle zone di confine, quando due sistemi entrano in contatto, uno si riorganizza grazie al rapporto con l’altro. Si tratta di un’idea importante che ci induce a pensare che non vi è un semplice adattamento di un sistema sull’altro, quanto piuttosto una riformulazione di un sistema che tenta di rispondere alle questioni poste dal contatto con l’altro. Tale dinamica costituisce la vitalità dei sistemi linguistici ma è estendibile ai contatti di qualunque sistema culturale. 

All’inizio dei Persiani il Coro enumera i comandanti che hanno seguito Serse e con essi i popoli che costituiscono l’impero: “uscita è tutta con lui d’Asia la possa”. Ciò che Eschilo mostra è la molteplicità come caratteristica dell’identità persiana: “una commista turba la ricca babilonia invia; e quanta gente al fianco il brando cinge, da tutte parti si movea, di Serse i comandi seguendo”. La caratteristica dell’impero persiano dunque è quella di essere costituito da più popoli, razze, lingue, religioni. L’identità greca si crea nel confronto con i persiani: come quelli sono molteplici, insieme di lingue, tradizioni e culture, così i greci sono unità, si chiamano fuori dal continuum asiatico per mutarsi in entità discreta dando un valore ad alcuni tratti culturali e mettendone in secondo piano altri. Il diasistema culturale in cui vivono molti greci viene riconosciuto come appartenente a un lato e a una identità. È una via di autorappresentazione che però nasce dal confronto con l’altro. I greci trovano se stessi e si riconoscono nella  narrazione dello scontro con l’unico impero universale dell’epoca.

Costruire un’identità culturale significa costruire una rappresentazione della propria appartenenza. È il prodotto di una dialettica e non il risultato di una naturalità originaria. Intendo dire che le identità culturali non sono uno status fissato in partenza ma sono il frutto di un’elaborazione che si definisce nel rapporto e alle volte nello scontro con le altre identità. In origine esiste solo un territorio confuso e ibrido che viene poi specificato, ma proprio in rapporto a quell’altro che diviene determinante nel riconoscersi. Senza la dialettica con l’altro non riesco a dire chi sono. È un’operazione di segnatura di confini che da culturali diventeranno politici e nazionali. 

Eschilo chiude I persiani con il lamento di Serse, ma il lamento per la sconfitta è preceduto dallo stupore della regina Atossa per la “diversità” greca. Questa diversità però non poteva emergere se non nel confronto con quello che era l’unico impero universale. Grazie ad esso i Greci si rappresentano come qualcosa di diverso. Comincia la storia dell’identità greca e con essa dell’Occidente.