È un libro coraggioso, Porzûs e la Resistenza patriottica di Matteo Forte (Luni editrice 2017). Un termine non esattamente “ortodosso”, se si vuole, quando si parla di storiografia contemporanea e di Liberazione. 

Le vicende, ricostruite abilmente dall’autore, sono note. Si tratta dell’eccidio di una formazione partigiana osovana (la Prima Brigata Osoppo, 18 in tutto) ad opera di partigiani italiani appartenenti ai battaglioni comunisti del Gap e di sloveni dell’esercito di liberazione di Tito. 



Fin qui il fatto, ma è sulle motivazioni della strage ipotizzate dalla storiografia contemporanea che il libro di Forte promette battaglia. La pietra dello scandalo è la comune interpretazione storiografica secondo cui il massacro di Porzûs non sarebbe altro che un atto di risposta ad un presunto doppiogiochismo dei comandi della Osoppo, colpevoli di non farsi scrupolo a prendere contatti con i comandi tedeschi e con gli esponenti fascisti locali, nell’ipotetica prospettiva di un rovesciamento del fronte in funzione antislava e anticomunista. 



Una linea interpretativa diffusa, che poggia innanzitutto sulla nozione di “formazioni autonome” che la storiografia ha delineato da tempo. Vexata quaestio, la definizione è da sempre controversa e discussa perché raggruppa tutte le formazioni partigiane il cui obiettivo non era legato all’instaurazione di un nuovo ordine sociale ideologicamente definito, ma semplicemente alla pura cacciata del nemico. Inutile dire che negli anni — in particolare attraverso opere come la Breve storia della Resistenza di Roberto Battaglia e Giuseppe Garritano — la definizione è stata utilizzata per dividere la storia della liberazione in due momenti specifici, in cui lo spontaneismo e l’improvvisazione del primo periodo vengono superati finalmente dalla “volontà più ferma” e dalla “coscienza precisa” di quelle formazioni partigiane che autonome non sono, ma ben più precisamente “politiche”. Così, formazioni autonome come quella della Brigata Osoppo nell’interpretazione storiografica generale hanno finito per essere contraddistinte da tratti qualitativi negativi (come “anticomuniste”, “antislave”, “nazionaliste”) piuttosto che per quello che realmente erano: brigate di partigiani che si battevano “solo” per la difesa della patria e dell’orgoglio nazionale. “Per” — e non piuttosto “contro” — la salvaguardia di una tradizione e la difesa del focolare (come recitava il motto degli osovani, “Pai nestris fogolârs”). Una coscienza anti-totalitaria che andrebbe riscoperta e approfondita perché contributo alla costruzione di un’Italia pacifica e di una convivenza democratica e plurale. 



Faute de mieux, da tempo la nuova ricerca storiografica in merito incontra l’ostacolo della concezione, consolidata, che difficilmente possa esistere antifascismo senza anticapitalismo. 

Il passaggio è decisivo, soprattutto per quanto riguarda il caso di Porzûs, perché è proprio a partire da questa impostazione generale che si arriva a giudicare il comportamento delle Formazioni Osoppo se non altro “equivoco” e a stimarne un “presunto tradimento”, perdendo così di vista le singole responsabilità di un vero e proprio crimine di guerra. 

Gli eventi si inseriscono infatti nella più generale “questione slovena” che il volume di Forte non esita ad approfondire per far comprendere il livello di scontro e di irrevocabile incomunicabilità cui erano giunte le due anime della Resistenza friulana. 

Finalmente, quindi, possiamo dire che si stia iniziando con coraggio nel panorama storiografico italiano a non derubricare più casi come quelli di Porzûs all’iniziativa dei singoli o a motivata risposta di presunti e sospetti rapporti con i nazifascisti. È tempo forse che episodi come quello oggetto del libro di Matteo Forte contribuiscano a svelare il sotterraneo pregiudizio che è stato coltivato negli anni nei confronti dell’elemento patriottico che muoveva alcune formazioni partigiane come quella osovana. 

Chissà che proprio da Porzûs, e dalla riscrittura di quel tragico momento della storia della Resistenza, non possa passare finalmente una nuova chiave di lettura di uno dei periodi più travagliati della nostra storia recente. Contributi alla lotta di liberazione come quello osovano possono dimostrare a tutti che è possibile superare la “dialettica del puro antagonismo” e la semplice coincidenza della Resistenza con l’antifascismo. Occorre tuttavia però spogliarsi dei pregiudizi e del desiderio di coprire, magari anche involontariamente, responsabilità e attribuzioni. Perché anche da vicende come quella analizzata da Forte possiamo riconoscere le peculiarità che ciascuna esperienza ha portato, sciogliere i nodi e arrivare ad una memoria condivisa, senza marcare artificiali differenze di natura morale. Alla ricerca — finalmente — non più di una storia della Resistenza, ma di una Storia delle Resistenze, che possa ridare valore a tutte le esperienze partigiane.