È stata fatta un’analisi storica, sono stati riconosciuti gli errori. E allora che anche la politica faccia il suo compito, ufficializzando tali errori, e riconciliandosi con tutti i caduti. Chiedendo loro scusa, o al contrario limitandosi ad offrire il suo perdono, anche se trovo questa seconda ipotesi addirittura grottesca, visto che fu lo Stato, nelle incarnazioni delle gerarchie dell’esercito, a sbagliare, e ripetutamente, in quel preciso contesto.
Dato il principio, basta fare il primo passo, purché sia un passo! La politica deciderà di riabilitare solo i soldati decimati? Bene, è già meglio di niente. Vorrà offrire il suo perdono in una targa al Vittoriano? Almeno la categoria dei fucilati inizierà a essere presa in considerazione.
È l’oblio normativo, è la reticenza mascherata da prudenza, quella che temo. Temo che l’Italia preferisca ancora una volta la zona d’ombra. E così, andando all’indietro, i figli del nuovo millennio non troveranno una memoria chiara e condivisa sugli anni di piombo; non troveranno una memoria chiara e condivisa sul fenomeno della Resistenza; non troveranno una memoria chiara e condivisa sul ventennio fascista; non troveranno una memoria chiara e condivisa sulla Grande Guerra.
In sostanza, non avranno una memoria chiara e condivisa dell’Italia.
Non è facile con la Grande guerra, perché è un fatto storico che ci arriva filtrato dalla lente intermedia del fascismo. Recuperare le pagine oscure della Grande guerra è doppiamente difficile, perché prima di condurre una qualsivoglia analisi è necessario scrostare il fatto storico dalla scorza retorica della Vittoria, dell’eroismo dannunziano, dell’arditismo fanatico. Non è facile perché il primo lessico, i primi sintagmi con cui la Grande guerra è stata narrata ufficialmente sono stati proprio quelli del regime. E quindi, in una sorta di imprinting culturale, la forma si è fatta sostanza. I morti sono diventati per antonomasia eroi. La battaglia è diventata epica. La morte sempre onorevole, e sacra.
È vero, se l’Italia arrivasse ad approvare un disegno di legge che parla di richiesta di perdono e di riabilitazione dei condannati a morte, farebbe qualcosa di sostanzialmente nuovo, perché i paesi d’Europa e fuori d’Europa che già si sono mossi in tale direzione (Francia e Inghilterra in primis, Germania per altre vie, Canada, Nuova Zelanda…) hanno per la maggior parte optato per formule generiche di offerta di perdono e di ricordo.
Però è anche vero, come si è cercato di dimostrare, che gli italiani non vissero la guerra come gli inglesi e i francesi, e pertanto una legge che preveda la riabilitazione e il perdono per i soldati fucilati è proprio ciò di cui l’Italia ha bisogno.
L’Italia e non la Francia, l’Italia e non l’Inghilterra.
Se, come purtroppo tutto lascia presagire, perderemo questa occasione e i fucilati, colpevoli e innocenti, continueranno semplicemente a vagare nel limbo di un’Italia che non vuole nemmeno offrire loro il suo perdono, non ci resta che sperare nelle iniziative locali, dal basso.
In Inghilterra e in Germania esistono monumenti dedicati alla memoria dei soldati fucilati. Tali monumenti sono il riconoscimento ufficiale del fatto che quella guerra, con i suoi eccessi mostruosi, costituì la prima infrazione, che obbligò alcuni soldati, sulla base della loro cultura e delle loro esperienze, a reagire di conseguenza.
Qualche anno fa ha sollevato qualche polemica l’installazione a Rovereto di un “monumento al disertore”, un monumento strano: mobile, precario, in legno, promosso dal gruppo Azione Nonviolenta per portare l’attenzione, ancora più delicata in terra trentina, su chi sia il disertore (ovvia la domanda: Cesare Battisti, Fabio Filzi, Guglielmo Oberan sono eroi o traditori? O eroi in quanto traditori? Dunque la guerra giusta è solo la guerra vinta?).
A Cercivento, in Carnia, dietro il cimitero del paese sta un cippo che ricorda quattro alpini friulani, fucilati per aver disubbidito a un ordine suicida, tentare di conquistare in pieno giorno una cima presidiata da nidi di mitragliatrici austriache.
Se i nostri senatori e i nostri deputati non si muovono, spero che siano tanti i Comuni d’Italia a imitare Cercivento o Rovereto. So che la maggior parte dei Sacrari militari della Grande Guerra sono sotto la diretta amministrazione del ministero della Difesa, quindi temo che questo Centenario passerà senza avere la gioia di vedere una lapide sull’Ossario del Grappa, o di Redipuglia, o di Asiago che ricordi in qualche modo i soldati italiani fucilati da altri italiani.
Però, mi si permetta una battuta, se l’Italia è ai vertici delle classifiche per consumo annuo di suolo e per cementificazione, non è possibile rinunciare a un “Corso Capricorno” o a un “Largo Orsa Maggiore”, e dedicare una delle nuove vie e delle nuove piazze che ogni mese vengono costruite ai soldati italiani fucilati nella Grande guerra? O ai decimati? O ai disertori?
Lavoro come insegnante a Bassano del Grappa: proprio di fronte al Tempio ossario inaugurato, manco a dirlo, nel 1934, e che ospita al suo interno, in posizione d’onore (la morte evidentemente non rende uguali se si muore in guerra…), le spoglie di Principe Umberto di Savoia-Aosta, si apre Piazzale Cadorna. La cosa può apparire una simpatica presa in giro ai poveri soldati morti nell’Ossario, se non fosse una contraddizione che si moltiplica in più parti d’Italia. Non Piazzale Caduti, non Piazzale IV Armata… Proprio il nome di colui che più di ogni altro simboleggia la cieca crudeltà della Grande guerra.
Per un po’ di tempo sono stato sostenitore di quanti cercano da parecchi anni (ad oggi senza esito) di far modificare il nome della suddetta piazza. Ora la vedo diversamente: non credo che condannare Cadorna o Graziani o Giardino alla damnatio memoriae sia la soluzione. Fanno parte della nostra storia. Rischiamo di eliminare una damnatio memoriae inaugurandone un’altra.
È giusto che i nostri ragazzi sappiano chi è Cadorna, che possano essere messi nella condizione di tracciare un’analisi storica che ne metta in luce i pregi e i difetti. Perché, non dimentichiamolo, il bene e il male assoluti sono categorie della religione e della politica, mai della Storia.
E quindi mi piacerebbe che proprio un viale che sfocia in Piazzale Cadorna fosse intitolato ai Fucilati d’Italia. Mi piacerebbe che la strada “Gaetano Giardino” che porta in Cima Grappa partisse laddove finisce Corso Disertori della Grande Guerra. Vorrei in altre parole che avessimo il coraggio di scandalizzarci. Vorrei che le nostre città fossero pietre d’inciampo, che ci obbligassero a registrare e a fare i conti con le contraddizioni di cui la nostra storia è intrisa, di cui noi stessi siamo interpreti e testimoni.
Mi rendo conto che il ragionamento che faccio presuppone una cultura nei confronti del monumento e della memoria che in Italia ancora non c’è (in Germania sì, l’ho vista): da noi troppo spesso i monumenti sono degradati a una funzione, perdonate il gioco di parole, meramente monumentale.
Sembra quasi che lancino verità assolute, che siano veri in sé. Ed è alla luce di questa deformazione della funzione di vie piazze e monumenti che capisco chi ravvisi ancora oggi, in una statua a Cadorna, un rischio per la verità storica.
In verità, o almeno in linea teorica, se una società ha deciso, in una certa fase della sua storia, di fare un monumento, significa che, in quel particolare momento, ha reputato necessario mettere delle cose in chiaro, far capire a tutti cosa per lei fosse davvero importante, irrinunciabile. E lo sappiamo: le società cambiano e si sviluppano. Quindi i monumenti dovrebbero essere visti come delle cartine al tornasole della nostra capacità critica nei confronti di ciò che siamo e di ciò che siamo stati.
Quindi quando vado a Redipuglia, anche se sono stati scalpellati via i due grandi fasci littori che decoravano la base della gradinata con gli infiniti, alienanti e ossimorici “presente”, percepisco di trovarmi davanti a un monumento fascista, devo percepirlo, e devo poterlo criticare, nel senso etimologico del termine. Devo sottoporlo al mio giudizio.
E proprio per questo non posso e non voglio smantellarlo. Altrimenti perdo uno strumento di critica del fascismo. Altrimenti permetto il lusso dell’ignoranza a chi verrà dopo di me. Quel monumento è una testimonianza oggettiva di una fase di storia che devo conoscere. È un documento, o perlomeno dovrebbe esserlo.
Purtroppo se questi documenti sono i soli a parlarci di un certo momento, allora ecco che arriva il rischio di leggere quel momento solo attraverso quei documenti. Come dicevo in precedenza, se sono un adolescente e incontro la guerra soltanto attraverso il lessico fascista dei sacrari, senza altri strumenti io avrò necessariamente una visione fascista della Grande guerra.
Ecco perché a mio avviso è più che mai utile anzi necessario oggi per l’Italia affiancare ai Piazzale Cadorna i Viali dei Fucilati, costruire monumenti ai disertori che guardino in faccia ai motti “Dei petti femmo argini e bandiere” e “A voi fatti dalla morte immortali”, erigere cippi con i nomi dei decimati che proiettino la loro ombra sui cimiteri che ormai da un secolo ospitano e onorano solo i morti “giusti”, solo quelli che quell’Italia, che socialmente e culturalmente e politicamente non è più la nostra, ha voluto ricordare e tramandare.
Solo così potremo scandalizzare le future generazioni. Solo così potremo avere la speranza di una memoria storica non più costruita su una passiva accettazione del dato, ma su una sofferta e mai definitiva conquista delle idee. Solo così potremo sperare di fare memoria, almeno per una volta, almeno per un fatto storico, in maniera completa, inclusiva, condivisa.
Nel frattempo, mi permetto di sperare che al Senato le cose procedano, e che entro il 2018 il pachidermico esame del disegno di legge approdi a qualche esito. I morti, bontà loro, sanno aspettare.
(4/4 – fine)
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