Il clima odierno, assai rilassato, delle celebrazioni del 25 aprile 1945 si spiega col fatto che non ci sono più i partiti che erano nati o rinati dall’antifascismo. E sono stati risucchiati dalla storia i movimenti estremistici che in esso hanno cercato una ragion d’essere, una spinta ideale al loro ribollente spirito antagonistico.
Oggi la domanda di antifascismo si è acquietata perché non sono più di scena le grandi organizzazioni politiche, e la maggiore di queste (guidata da Matteo Renzi) equivale ad una confederazione di interessi elettorali e ad un caucus di persone.
Nel nostro paese, come in Francia, è cresciuta una domanda di unione nazionale, di protezione e di difesa comune contro il terrorismo. Rischia di diventare una richiesta di lotta contro il diverso, le minoranze di profughi e clandestini in fuga dai regimi dispotici e tribali dell’Africa subsahariana.
La cultura antifascista (che reca il segno dell’educazione cristiana e liberal-socialista) esercita una funzione di prevenzione contro questa deriva.
Non la si può chiamare rimossa e vinta nemmeno in un paese come il nostro. Sfortunatamente le diseguaglianze e le discriminazioni sono ancora elevate (come all’interno delle stesse imprese industriali). E l’odio verso la violenza e la disumanità del nazismo (di cui siamo stati non occasionali alleati) potrebbe declinare, se non si sapranno curare le differenze nel contenzioso politico in seno alla comunità europea, in un odio contro il tedesco in sé e per sé.
Qualche giorno fa un documentario televisivo guidato da Paolo Mieli sulla liberazione di Genova, Torino, Firenze e Milano ha mostrato la rivolta popolare contro ciò che restava dell’esercito germanico in fuga. Sarebbe stato opportuno riproporre un secondo lavoro, di grande semplicità, ma di straordinaria efficacia documentaria e narrativa come quello dedicato al post-25 aprile.
In esso Mieli si soffermava, con grande respiro storico, sul lavoro femminile (a cominciare da quello duro dell’edilizia) delle donne tedesche, sulle angherie, i delitti nei confronti degli ebrei, sulla limitazione dei diritti (nelle stesse università) nei paesi “liberati” eccetera.
Anche questo è stato il volto dell’antifascismo. E mostra la difficoltà ad accogliere “il valore del 25 aprile” come “democratico e universale”, come propone Virginio Rognoni (Corriere della Sera, 24 aprile 2017). Questa sintesi di democrazia e di universalità è sconosciuta, ed è oggetto di una lotta feroce per conquistarla, in gran parte dell’Africa e dell’Asia.
Dobbiamo, però, lasciare il posto alla storiografia per renderci conto dello spessore e delle diversità dell’antifascismo. Dopo quella politica, legata agli organi centrali dei partiti, mi pare il momento di valorizzare quella che proviene dalle biografie individuali, dal seno delle stesse famiglie, dei dirigenti di ogni ordine e grado.
Come fu vissuto il fascismo, quali furono i contenuti dell’antifascismo per esempio in una zona come Pescara?
Ha ragione Lorenzo Ornaghi a rilevare come “Le vicende di una famiglia e di uomini della terra d’Abruzzo, nella loro chiara filigrana, ci permettono di scorgere, comprendere meglio e amare di più — perché la percepiamo reale e precisa, proprio nei dettagli unici e irreplicabili della vita di ogni persona — quella che è stata la storia dell’intero Paese durante gli anni finali del fascismo e in quelli della costruzione della democrazia italiana”. Traggo queste osservazioni dalla presentazione al volume di Francesco Mancini Già vinti nel cuore. Un carteggio famigliare 1936-1944 (Solfanelli 2011).
L’autore ha avviato una perlustrazione delle carte di famiglia di grande interesse per le biografie e le esperienze politiche dei suoi parenti più stretti. Si tratta di una selezione delle trecento lettere dello zio Giovanni Armando. Fu un intellettuale fascista vincitore dei Littoriali, che finì trucidato a Kos nel 1943 dai tedeschi ai quali s’era opposto fino all’ultimo.
La seconda parte è costituita dal lungo diario di guerra tenuto dal padre, Antonio, nei sedici mesi in cui fu creduto morto o prigioniero tra il ’43 e il ’44. In questo caso siamo in presenza di un autodidatta, un piccolo agricoltore messo quasi sul lastrico dalla crisi agraria del 1930. Diventerà un dirigente (e parlamentare) della Democrazia cristiana dopo il 1945, ma la sua vita non fu diversa da quella di un socialista o di un comunista in quegli anni. E’ il periodo in cui i partiti di massa antifascisti scrissero la carta costituzionale.
Ufficiale presso la Scuola di artiglieria di Pesaro, dopo l’8 settembre aveva combattuto in Corsica contro i tedeschi assieme ai maquis. Fu ancora contro i tedeschi nelle ultime due settimane di guerra ad Argenta, nel Ferrarese. Ma la militanza antifascista non gli fece velo quando dovette assistere agli scempi del Pci nel “triangolo rosso” immediatamente dopo la Liberazione.
Se c’è un modo originale e fruttuoso di celebrare il 25 aprile è quello di saper arricchire quella vicenda con gli apporti assai diversi, non omologabili in termini di mappe politiche, di singole personalità e gruppi familiari.
E’ quanto ha fatto Francesco Mancini, facendo risaltare nell’antifascismo il vissuto di una famiglia abruzzese, la propria, in nome di una collettività nazionale che purtroppo stenta ancora a scrivere, cioè a narrarsi.