NEW YORK — Qual è l’area della società statunitense di oggi per cui si possa parlare di un sistema non troppo dissimile da un regime poliziesco? Non l’ambito politico, dove continua a funzionare il famoso equilibrio dei poteri (checks and balances), bensì l’ambiente culturale: i media, le università, lo spettacolo. 



Limitandoci al mondo dello spettacolo, così pervasivamente influente (cinema, televisione, teatro, soprattutto quest’ultimo) — e definendo come regime con caratteristiche, se non poliziesche almeno repressive, un sistema culturale in cui esistano forti limiti alla libertà d’espressione — si può dire senza timore di esagerazione che nell’ambiente dello spettacolo ci si stia avvicinando sempre  più a tale situazione. E’ tutto molto semplice e brutale: se uno scrittore tenta di esprimere certi contenuti, non viene rappresentato. E perché il teatro risulta, in questo caso, la miglior cartina di tornasole? Perché il teatro, meno commercializzato del cinema e della televisione, dovrebbe essere l’area culturale più adatta a esprimere punti di vista minoritari, e mostrare visioni del mondo insolite e problematiche. Inoltre il teatro, con l’immediatezza della sua presenza fisica di corpi umani nella realtà del hic et nunc, conferisce una vivacità insostituibile, e allarmante per ogni conformismo, alle parole e al pensiero che esse incarnano (il teatro mostra al proprio tempo “la sua stessa forma e pressione” — his form and pressure — come Shakespeare fa dire, stupendamente, ad Amleto).



Ma oggi negli Stati Uniti (e in Italia) il teatro è soprattutto divenuto il braccio temporale del conformismo oppressivo, in forza del quale il femminismo si è esasperato in misandria; la virilità è stata degradata a machismo; i pelle-bianca sono divenuti vagamente imbarazzanti; le diverse prospettive sulla società si sono ridotte a un pensiero unico; qualunque forma, non si dice di dottrina ma di sensibilità e di tradizione cristiane, è ammessa solo come oggetto di ridicolo; e così via asfaltando.

Ma l’arte e gli artisti sono resilienti. Qual è allora uno dei modi più efficaci in cui l’arte si difende dall’oppressione conformistica esercitata da quell’ideologia tendenzialmente totalitaria la quale stabilisce imperiosamente ciò che è “corretto” e ciò che non lo è? Il modo è quello di “contrabbandare” (uso il termine in un senso positivo, anzi benefico) certe idee riprendendo drammi del passato in cui non esisteva ancora la tirannia del conformismo.



Fra le riprese teatrali di quest’anno, due sono state veri e propri eventi — due brevi e intensissimi drammi proto-novecenteschi (in sostanza, atti unici) che hanno avuto un effetto esplosivo: “L’imperatore Jones” (The Emperor Jones) del 1920, di Eugene O’Neill; e “Lo scimmione peloso” (The Hairy Ape) del 1922, dello stesso O’Neill. Per capire la forza, ancora esplosiva, di queste pièces (ciascuna delle quali ha protagonizzato un’intera serata, in due teatri e con due regie molto diverse) basta un riassunto di poche righe. Rufus Jones — il protagonista del primo dramma — è un afro-americano ricercato per omicidio negli Stati Uniti il quale si è imposto come monarca assoluto (“imperatore”) a un piccolo paese africano. A un certo punto gli abitanti si rendono conto che costui è solo un truffatore, e il dramma si conclude in tragedia: Rufus, braccato dai suoi stessi sudditi, al termine di una lunga fuga allucinante attraverso la foresta viene da essi ucciso. Per capire il “contrabbando” di cui si parlava, bisogna pensare alla impossibilità di rappresentare, sui palcoscenici americani degli ultimi decenni, un personaggio di colore raffigurato (anche con tutta l’empatia che mostra O’Neill, vero grande drammaturgo) come un delinquente senza scrupoli.

Ancora più esplosivo è il caso dello “Scimmione peloso”: la storia di un fuochista (Yank), dotato di un’energia ottimistica e orgoglioso del suo lavoro, che, sul transatlantico in cui fatica, si trova improvvisamente faccia a faccia con una ricca e arrogante passeggera la quale lo apostrofa sprezzantemente come una “sporca bestia”. L’immagine di se stesso che Yank si era costruito come base della sua dignità, gli crolla improvvisamente addosso: sbarcato a Manhattan, lo stato mentale dell’uomo degenera, fino a un disperato dialogo surrealistico con un gorilla attraverso le sbarre di una gabbia allo zoo.

Perché, sera dopo sera, un pubblico vasto ed eterogeneo balza in piedi applaudendo nell’enorme spazio della “Armory” su Park Avenue di fronte a questo breve dramma brillantemente dilatato nel tempo e nello spazio? Forse perché, come osserva il recensore teatrale di una rivista raffinata, “da molto tempo non si vedeva, sui nostri palcoscenici, una raffigurazione del dolore maschile”. Affermazione esatta; ma al tempo stesso doppiamente  ipocrita. Ipocrita prima di tutto perché non si tratta del dolore maschile in generale, ma del dolore di un uomo bianco, dopo che l’esperienza del dolore nel dramma contemporaneo sembrava essere rivolta esclusivamente a pelli di altri colori (pronunciare l’aggettivo “bianco” è oggi diventato un gesto altrettanto delicato di quello con cui una volta si usava l’aggettivo “nero”, e questo dà la misura del punto di frattura a cui la società americana è arrivata). E inoltre ipocrita perché, se questa rappresentazione era diventata così rara, ciò si deve al regime descritto sopra, e vigorosamente appoggiato dai vigilantes culturali.

Allora chi, fra i giovani e le  giovani che studiano per diventare drammaturghi nelle prestigiose scuole di Yale, Columbia e luoghi simili, ritroverà il coraggio di quasi un secolo fa, alle origini del teatro americano contemporaneo, e sfiderà i mentori censori?