Anche se non è di recentissima uscita, ma risale a fine 2014, mi sentirei di consigliare di riprendere in mano Un cuore pensante di Susanna Tamaro (Bompiani). C’è una costante nelle riflessioni raccolte nel volume, ed è la contrapposizione fra oggi e ieri; dove per “ieri” l’autrice intende i tempi della sua infanzia, non remota, certo, ma rispetto alla quale sembra passata un’eternità. Si comincia dal ricordo della maestra d’asilo, che, senza troppi giri di parole, a quella bambina solitaria aveva profetizzato niente di meno che il manicomio. Eppure, una simile brutalità nella comunicazione, ci dice l’autrice, aveva un suo senso: “Allora l’oscena melassa del politicamente corretto non era ancora scesa a inquinare i rapporti umani. Pane al pane, vino al vino era un ottimo sistema per restare ancorati alla realtà”.
Effettivamente, se c’è qualcosa che, intuiamo, Susanna Tamaro aborre, è proprio questa “melassa” dolciastra che tutto appiattisce in nome di una falsa idea di tolleranza e filantropia: lo sguardo dell’autrice è sempre lucido, carico di umanità e sensibilità, ma assolutamente scevro da preconcetti e condizionamenti ideologici: e tutte le brevi, spesso fulminanti rubriche di Un cuore pensante (che amplia e arricchisce gli spunti già sviluppati su Avvenire nell’omonima rubrica del 2014) valgono come ideale continuazione di quella spietata capacità di analisi sul proprio vissuto familiare cominciata con Ogni angelo è tremendo. Così, la piccola Susanna, nata in una famiglia che oggi definiremmo con paroloni presi a prestito dalla psicologia “disfunzionale” — e che non era poi tanto rara nemmeno negli anni Cinquanta e Sessanta (e nemmeno prima: pensiamo al terribile vissuto di Olga, e di sua madre, in Va’ dove ti porta il cuore) — comprende sin dai primissimi anni che la sua più vera e più profonda vocazione è “quella eremitica”.
La quiete della solitudine affina le sue capacità analitiche e introspettive, e la fa interrogare sul suo vissuto familiare, su quel matrimonio fallito da cui sua madre aveva ricavato amarezza e delusione, e da cui il padre si era invece liberato presto, come da un vincolo troppo pesante per chi concepiva la vita come il vagabondaggio di un aquilone libero di errare per il cielo, trasportato ora da quella ora da questa corrente d’aria.
Così, Susanna Tamaro può dire a ragione che un’infanzia felice, sicura, protetta, in cui l’amore e le attenzioni non sono mancate, diventa una sorta di muta da palombaro per il bambino, e per l’adulto, che, nelle vicissitudini della loro esistenza, potranno sempre trovare, nella protezione e nell’amore ricevuto in quei primi anni, una sorta di difesa, di riserva di energie interiori e di sicurezza. Eppure, l’autrice non sa, non può, non riesce a inveire velenosamente contro le circostanze e i responsabili di quella sua infanzia e adolescenza così anomale: queste, in fondo, oltre ad affinare una capacità introspettiva non da poco, l’hanno resa quello che è, un cuore pensante e capace di decrittare le contraddizioni e i falsi miti del nostro tempo.
E così, per esempio, in “Individui e persone”, con un linguaggio piano e semplicissimo, affronta senza isterismi una questione scottante: “L’unica diversità ammessa ormai è quella sessuale (…) Sicuramente si tratta di un passo avanti nella civiltà dei rapporti fra persone, ma, in questo passo, non posso fare a meno di sentire in sottofondo un sottile scricchiolio. Sono una figlia degli anni Settanta, la mia educazione è stata improntata al più assoluto libertarismo. Forse per questo non posso che guardare con attonito stupore a questo addomesticamento della diversità. Volere caparbiamente cose che, ai miei tempi, venivano viste come un vero orrore: il matrimonio, i confetti, i pranzi domenicali con i suoceri (…)”.
Cioè, quello che fa paura all’autrice, e che un po’, forse, dovrebbe spaventare anche noi, o almeno portarci a qualche interrogativo, non è la diversità in sé, ma questa smania a voler tutto addomesticare, alla “normalità obbligatoria”, che rischia “di spingerci verso realtà sempre più claustrofobiche”. Questo perché la linearità dell’individuo ha preso il sopravvento sulla complessità della persona”, distinzione sottile, ma fondamentale, proprio come quella che nonna Olga proponeva in Va’dove ti porta il cuore, sulla diversità fra carattere e personalità, che non sono affatto la stessa cosa (e anzi, spesso, le persone fornite di gran carattere sono molto povere in personalità).
Se azzeriamo questa ricchezza, volendo a tutti i costi normalizzare tutto e tutti, rischiamo l’omologazione strisciante: certo, non ci sarebbero più bambine come lo è stata l’autrice, che si sentiva, a tratti, “una tigre costretta a essere una bambola” (p. 10). Una bambina, infatti, “doveva amare il colore rosa e i pizzi, prendersi cura delle bambole e provare gusto nello scimmiottare le donne adulte, allungare le mani di nascosto verso i trucchi della mamma, provare le sue scarpe, barcollando sui tacchi, amare la chiacchiera leggera, la competizione esibizionistica con le coetanee” (ibid.). Nulla di più lontano dal modo di essere di Susanna, che non sempre ha incontrato sulla sua strada persone sensibili e dotate di acume psicologico, come la nonna, che, un Natale, sotto l’albero, fece trovare alla nipotina un completo da cow-boy uguale a quello del fratello; o come il ragazzino di cui la giovanissima Susanna è invaghita. Quando la ragazza prova ad essere “come tutte le altre”, indossa una gonna “che stava da tempo a prendere polvere nell’armadio” provandone una cocente vergogna, non per le gambe scoperte in sé, ma perché con quel gesto aveva “rinunciato alla parte più profonda della [sua] persona per una realtà meschina come quella della seduzione” (p. 49). Il ragazzo in questione, poi, lo conquistò ugualmente, ma egli, essendo un giovane intelligente, non poté non sottolineare come vedere Susanna in gonna fosse stato “orribile”, perché, per un giorno, aveva temuto che anche lei fosse “come tutte le altre”.
Questo punto di Un cuore pensante mi sembra perfetto per esemplificare come in questo volume riflessioni di peso e ricaduta notevole sulla vita di tutti noi vengano affrontate con semplicità, che non è leggerezza. Quante donne e ragazze hanno sognato un innamoramento che fosse un sodalizio, una forte e lunga amicizia, in cui riconoscere l’altro come compagno, mentre invece ci si ritrova troppo spesso in un panorama umano che mette la seduttività, l’essere carine, curate, accattivanti, sorridenti, al primo posto, in cui l’amore non basato sulla stima e sull’amicizia, ma piuttosto “sulla facilità dell’inghippo” (Va’ dove ti porta il cuore, 1996). Quante donne e ragazze hanno sperimentato, come l’autrice, la sensazione mortificante di essere “una tigre sullo sgabello, costretta dalla frusta” (p. 49); e quante persone, non dotate di particolare tenacia, o forza d’animo, si sono così arrese.
La donna ormai adulta che ripensa a sé bambina, e poi ragazza, preda di profonde inquietudini e di domande altrettanto profonde, guardando al suo percorso di vita, può dire: “Beati coloro sulle cui spalle non è stato posto un carico troppo grande” (“L’Avversario”): beati tutti coloro che docilmente, senza essere sfiorati dalla perigliosa ala del dubbio, seguono la strada già tracciata dagli altri, e non sentono sussulti e scosse interiori, non hanno mai visto mettere in discussione le fondamenta della loro vita, ma, anzi “la bontà è sempre stata posta davanti a loro come la migliore delle opzioni, sanno che devono sforzarsi di andare in quella direzione”.
Già, beati. Ma quanti possono dire di essere in questa condizione edenica? E per quelli che non lo sono, che sono, come l’autrice, cresciuti con la sensazione mortificante di essere “una tigre costretta sotto una maschera”? Per tutti loro c’è, fin da subito, la consapevolezza, dolorosa, ma a volte anche inebriante per la prospettiva che apre a un animo naturalmente battagliero: quello di non dimenticare che la generale tendenza a rendere tutto facile, tutto indolore, tutto immediato, tutto all’immediata portata dell’uomo, porta con sé, di fatto, la relegazione nell’ombra di uno dei due poli della vita umana, il bene e il male. E, come ammonisce l’autrice “quest’oscuramento, quest’assenza di dialettica tra le parti, piace molto all’Ombra”.