Si stima che durante la Grande guerra un soldato italiano su dodici sia stato incriminato per infrazioni alla disciplina militare. I renitenti alla leva raggiungono cifre altrettanto spaventose, però difficilmente gestibili, in quanto la stragrande maggioranza delle quasi 500mila denunce per renitenza registrate tra il 1915 e il 1919 vanno riferite a italiani emigrati all’estero che si rifiutarono di rimpatriare.



Rivolgendo l’attenzione ai casi acclarati di diserzione, i numeri parlano altrettanto chiaramente: 8mila nel 1915, 25mila nel ’16. I conteggi per il 1917 possono arrivare con un certo ordine fino a ottobre, e segnano già 22mila casi; dopo, con la rotta di Caporetto, quanto avvenne rende eccessivamente aleatori calcoli anche solo approssimativi, ma che, realisticamente, portano la cifra totale per quell’anno ben oltre la soglia, già altissima, raggiunta nel ’16.



La stessa difficoltà statistica si ritrova parlando delle fucilazioni. Ma anche nella vaghezza un’idea è possibile farsela, purtroppo: l’Italia detiene il record per le esecuzioni capitali, a seguito di condanne emesse per diserzione, sbandamento, vigliaccheria, rifiuto dell’obbedienza, mancato rientro nei propri reparti impegnati in azioni in faccia al nemico… Circa mille fucilazioni “ufficiali” e accertate (le fonti discordano tra un minimo di 900 e un massimo di 1100), per un esercito di circa quattro milioni e 200mila uomini, impegnato nel conflitto dal maggio del 1915 al novembre del 1918.



I numeri, in questo caso, sono importanti: la Francia infatti ha avuto 700 soldati messi al muro, ma con un esercito di 6 milioni di persone, e con un anno di guerra in più sulle spalle. L’Inghilterra ha avuto circa 350 fucilati, la Germania si ferma attorno alla cinquantina.

Dicevo della difficoltà statistica. Sì, perché il migliaio di condannati a morte dalla giustizia militare italiana sono in realtà una parte (quasi certamente maggioritaria, ma comunque una parte) di un tutto più ampio: i vertici dell’esercito italiano si prodigarono da subito in una serie di circolari che avevano come fine dichiarato mettere gli ufficiali nelle condizioni di poter punire con immediatezza e durezza esemplare la truppa che si dimostrasse refrattaria alla disciplina. Di seguito alcuni stralci tra i più significativi:

Circolare n. 1 del 24 maggio 1915 (l’Italia entra in guerra quel giorno): “la punizione intervenga pronta: l’immediatezza nel colpire riesce di salutare esempio, distrugge sul nascere i germi dell’indisciplina, scongiura mali peggiori e talvolta irreparabili“.

Circolare n. 3525 del 28 settembre 1915: “chi tenti ignominiosamente di arrendersi o di retrocedere sarà raggiunto, prima che si infami, dalla giustizia sommaria del piombo delle linee retrostanti o da quello dei carabinieri incaricati di vigilare alle spalle delle truppe, sempre quando non sia stato freddato prima da quello dell’ufficiale“.  

Circolare del 1° novembre 1916 di Emanuele Filiberto di Savoia, comandante della III Armata, da molti storici considerata la “legittimazione formale” alla circolare di Cadorna di nove giorni dopo, di seguito riportata: “Intendo che la disciplina regni sovrana fra le mie truppe. Perciò ho approvato che nei reparti che sciaguratamente si macchiarono di grave onta, alcuni, colpevoli o non, fossero immediatamente passati per le armi.

E per finire, la tristemente nota circolare “delle decimazioni”, la 2910 del 10 novembre 1916: “Ricordo che non vi è altro mezzo idoneo a reprimere reato collettivo che quello della immediata fucilazione dei maggiori responsabili e allorché l’accertamento personale dei responsabili non è possibile, rimane il dovere e il diritto dei Comandanti di estrarre a sorte tra gli indiziati alcuni militari e punirli con la pena di morte. A codesto dovere nessuno che sia conscio di una ferrea disciplina di guerra può sottrarsi ed io faccio obbligo assoluto ed indeclinabile a tutti i Comandanti“.

Già alla luce di questi principi “regolari e previsti” è facile immaginare come, magari nella concitazione di qualche frangente particolarmente drammatico, fucilazioni sommarie o decimazioni possano essere passate sotto silenzio, essere state dimenticate, omesse più o meno volontariamente; altre volte, in una sorta di oscillazione schizofrenica, abbiamo notizie di ufficiali che, dopo aver fatto passare per le armi un soldato, per “salvare l’onore” della famiglia abbiano compilato nella cosiddetta “dichiara” del registro di divisione un generico “disperso in combattimento” come causa della morte.

Ma non basta: per capire quanto i numeri delle fucilazioni ufficiali siano in realtà parziali rispetto alla verità storica bisogna necessariamente prendere in considerazione il “fenomeno Caporetto”, il dissolvimento di un’intera armata, il ripiegamento caotico e farraginoso delle altre armate rimaste in linea, il disperato, cruento tentativo (andato a buon fine) di mantenere ad ogni costo in piedi la macchina bellica del regno.

Per dare conto della drammaticità di quei momenti è necessario fare il nome di Andrea Graziani, generale nominato da Cadorna, pochi giorni prima di cedere il passo a Diaz, “Ispettore generale del movimento di sgombero delle truppe dall’Isonzo al Piave”. Il generale Graziani ricevette, ed esercitò con precisione e costanza, il diritto di passare immediatamente per le armi, senza processo, è bene sottolinearlo, chiunque, tra soldati o civili, a suo avviso si rendesse colpevole di qualche crimine. Vista la mancanza totale di documenti processuali (spesso le fucilazioni venivano eseguite su due piedi, il Graziani girava su una camionetta accompagnato da un gruppo di carabinieri preposti al compito) e visto il regime di censura cui l’esercito, per il bene superiore della patria, aveva sottoposto tutte le testate giornalistiche del Veneto in quei giorni, non abbiamo numeri certi.

Ci sono arrivati dei manifesti, appesi come monito tremendo nelle strade di Padova, Treviso e Vicenza, e ci sono arrivate le testimonianze di alcuni soldati (cito tra gli altri per precisione di cronaca: Angelo Gatti; Valentino Coda; Curzio Malaparte; Ugo Ojetti): questi documenti ci parlano di almeno 30 fucilazioni, limitandoci ai soldati italiani, eseguite nel solo mese di novembre del 1917.

Dopo il conflitto e prima che il fascismo riconducesse la guerra nell’alveo retorico della Vittoria, in concomitanza con la commissione d’inchiesta che indagò su Caporetto, arrivarono gli scandali e le indagini di diversi giornali, tra cui spicca il socialista Avanti, sulle fucilazioni del Graziani, tra le quali le più tristemente celebri sono quelle dell’artigliere Alessandro Ruffini, ventiquattrenne di Castelfidardo, ammazzato a Noventa Padovana perché si sarebbe messo sull’attenti, assieme al resto della sua truppa, tenendosi il sigaro (o la pipa) in bocca, e di Pietro Scribante, del 113 fanteria, originario del novarese, fatto fucilare dal Graziani per mano di un plotone scelto appositamente tra suoi compaesani, e dopo quello che i testimoni giudicarono una farsa di processo, celebrato in pochi minuti alla presenza, muta e tremenda, della bara che avrebbe di lì a poco accolto le spoglie del soldato.

Prima di passare oltre vorrei richiamare l’attenzione su un fatto, che bisogna tenere a mente con fermezza: il generale Graziani non era un pazzo: il suo curriculum militare e civile ci dà prova inequivocabile di un ufficiale lucido, capace, energico. Fu una delle poche medaglie d’oro concesse all’indomani del terremoto di Messina del 1908, per gli aiuti organizzati dall’esercito ai civili colpiti dal sisma; dopo la guerra fu sindaco del suo paese nel veronese, presiedette comitati di bonifica agraria, guidò e patrocinò per anni il completamento della “strada del Baldo”, sulla sponda veronese del Garda. Egli, in altre parole, non era un sadico sanguinario, reso folle dalla guerra. Egli arrivò ad agire in quel modo lucidamente, razionalmente, legittimamente, sulla scorta di quello che si configura come un chiaro iter normativo che lo autorizzò a comportarsi in tale maniera. Graziani, in poche parole, non è un’eccezione, Graziani non è una deformazione. Egli fu la regola.

Egli fu la conseguenza di una pratica, messa in atto fin dal 1915 dai vertici dell’esercito italiano, che prevedeva la violenza come strumento legittimo contro un esercito che, se i dati statistici hanno un senso, sentiva quella guerra molto meno degli altri paesi belligeranti. Molti storici affermano, probabilmente a ragione, che il processo di unificazione degli italiani si compì nelle trincee, quando milioni di “neo-connazionali” vissero, parlarono e morirono fianco a fianco. A conti fatti, mi permetto di domandarmi se 650mila morti siano un giusto dazio da pagare alla nascita di una coscienza nazionale. Evidentemente c’è ancora oggi chi crede di sì. Ed evidentemente c’è chi crede che, nonostante le analisi successive, sia ancora necessario distinguere tra morti di seria A, degni di entrare negli elenchi ufficiali, di essere scolpiti sui marmi dei sacrari, e morti di serie B, anche loro morti in guerra, anche loro morti di guerra, eppure, a distanza di un secolo, ancora censurati, ancora dimenticati, ancora, potremmo concludere, condannati.

(1/4 – continua)