Raffaele, Ralph Minichiello, un nome da guappo o sciuscià. Molisano, invece, di quelli che l’amara terra ce l’hanno nel sangue, partito nel dopoguerra con famiglia e valigia di cartone, destinazione America. Che non era Lamerica per niente e toccava conquistarsela, tra botte e umiliazioni. Per questo sceglie di fare il soldato, per avere una patria, per conquistarsi un futuro. Era il fango delle paludi del Vietnam, la putredine dei cadaveri dei compagni, la terra fradicia in cui ripararsi da nemici mai visti in faccia, reali solo le bombe e le imboscate notturne. Eppure dopo un anno di quell’orrore Ralph si sentiva un eroe, pensava di avere svoltato. Gli decurtano il premio che gli spettava e il sangue ribolle, come se tutta la sua stirpe antica chiedesse giustizia, e la pretendesse da lui. 



Così Ralph, non ancora ventenne, diventa protagonista di uno dei casi più eclatanti e spinosi per le diplomazie italiana e americana. Un antieroe che attira l’attenzione della stampa e della polizia occidentale. Il marine di Mileto Irpino dirotta un aereo che decolla da Los Angeles, lo fa fermare a New York per rifornirsi di carburante, e trasvola l’oceano, per atterrare a Roma. Vuol tornare a casa, salutare il padre malato, e lo spiega ai piloti basiti e alla hostess cui fa battere il cuore la sua audacia. Ha l’Fbi alle calcagna, sfidato da un ragazzino offeso per averci rimesso appena 200 dollari. 



Pier Luigi Vercesi mette le mani su una vicenda incredibile, ne fa un libro che si legge d’un fiato, e si vorrebbe trasformato in immagini, sarebbe piaciuto a Coppola. Il giornalista e lo scrittore lavorano all’unisono, con diversi registri narrativi, la cronaca e l’intervista, inserendo la storia di un ragazzino in vena di riscatto nella grande Storia ferita da una guerra assurda e perduta. C’è il ’68, la Guerra fredda, l’inizio dello stragismo nostrano, mezzo secolo breve ripercorso senza la lente dell’ideologia, con un rigore che non  spegne la curiosità, la tenerezza solidale per l’umanità dolente di Menichiello e degli sventurati che risposero a un appello che non era né giusto né glorioso. 



L’happy end giudiziario alla vicenda dello sconsiderato ventenne molisano non è da film, che dovrebbe concludersi con la gara a difenderlo degli avvocati più in voga, con le dichiarazioni d’amore di fanciulle estasiate, le avances delle firme più note, della televisione e del cinema, la condanna risibile che suggella il suo gesto come una riparazione, lui solo contro gli Stati Uniti. Perché Menichiello non cercava la fama o i soldi, ma le radici e quel pizzico di felicità che facesse scordare la miseria d’infanzia e l’orrore della guerra e questa grazia non gli è stata concessa. Schiacciato dai lutti e dalla solitudine, trova nello scrittore un volto comprensivo che non giustifica, ma comprende il suo passato e il suo presente di testimone appassionato della Bibbia, nella versione dei predicatori d’oltreoceano, non dei parroci scostanti e distanti del paesello d’origine. Cerca una penna che ne Il marine. Storia di Raffaele Minichiello, il soldato italo-americano che sfidò gli Stati Uniti d’America (Mondadori, 2017) scrive l’epica che gli è stata negata, “cogliere il senso di quella vita, le ragioni profonde di scelte sul filo di un’ipotetica follia dove, in realtà, follia non c’era”.