Con Giovanni Sartori (1924-2017) scompare uno dei politologi più influenti della seconda repubblica. Molti suoi lavori sulla forma partito e sui sistemi elettorali erano già ampiamente noti nel dibattito specialistico degli anni Sessanta e una qualche fortuna avevano pure avuto gli scritti su Croce, Hegel e Kant negli anni Cinquanta — quando gli interessi di Sartori, più che alla dottrina dello Stato, sembravano far riferimento alla filosofia morale. 



Ciò non toglie che la percezione pubblica di Sartori come intellettuale impegnato anche nel dibattito mainstream sia difficilmente pensabile in assenza di più precisi richiami al contesto politico. Dalla fine del sistema proporzionale ad oggi, Sartori ha finito per rappresentare la figura dell’esperto internazionale, del cattedratico di carriera, chiamato a misurare le proprie notevoli cognizioni sui miseri recinti della politica italiana a caccia della legge elettorale perfetta. 



La tensione apparentemente irriducibile tra la governabilità del sistema e la rappresentatività della legge elettorale risale al dibattito referendario della prima metà degli anni Novanta. Quella discussione abbandonò le accademie, si diffuse nei bar, fu coattivamente imposta alle televisioni, poiché appariva chiaro che in un quadro politico frammentato la legge elettorale aveva un solo possibile significato: far prendere la cassa a chi, anche non vincendo, avesse almeno ottenuto un punticino più degli altri. Le forze politiche, ovviamente, cavalcarono le tentazioni neomaggioritarie da par loro. Nel 2006 un governo di centro-sinistra, poggiato su numeri mai così ridotti, favorì l’elezione a maggioranza semplice delle principali cariche dello Stato (Presidenza della Repubblica, oltre che delle due Camere). Una prassi pigliatutto che l’aborrita prima repubblica mai aveva espresso… 



Gli esperti dei sistemi elettorali si sostituivano alle scuole di formazione politica e si discettava sugli Stati che l’Italia doveva prendere a modello per adeguarsi davvero alla modernità (ora il modello francese, ora quello statunitense, talvolta l’antico paradigma germanico, spesso invocato dagli studiosi del diritto). Il mito dalemiano del “Paese normale” forse fu debitore di suggestioni del genere, ma le elaborò in un’accezione tendenzialmente negativistica. 

Non fu senz’altro colpa di Sartori, ma lo spostamento del confronto politico interamente sulle forme della rappresentanza fu disastroso per la legittimazione sociale della classe dirigente italiana. 

Sartori sferzava ogni possibile innovazione proposta da altri in materia di legislazione elettorale, in ciò facilitato da un ceto politico che le leggi elettorali non ha mai saputo scrivere particolarmente bene. Curiosamente, Sartori si dimostrava molto meno aprioristico nei confronti della revisione costituzionale: da “scienziato della politica” aveva ben compreso quanto le leggi elettorali dipendessero dalla trama più ampia delle proverbiali “regole del gioco”. 

L’influenza di Sartori nel dibattito politico e giuridico italiano, soprattutto in alcuni ambienti, fu enorme. Ne ebbe una simile — ma su aspetti molto più circostanziati — solo Michele Salvati, quando divenne il teorico della necessità storica di un “partito democratico”. Il partito di una sinistra tramontata che andava, così, a pescarsi i suoi voti verso il centro, verso il famigerato “elettore mediano”. Anche lì: intuizione forse dannosa, ma da Sartori non disprezzata. Il boom di Grillo alle politiche del 2013 e quello di Renzi alle europee del 2014, per quanto illusori, dimostrano chiaramente che la vera vittoria consiste nel far il pieno del proprio elettorato di riferimento, non disdegnando di aggredire direttamente e senza alcuna mediazione di un “elettore tipo” fittizio il consenso politico dei propri competitori.  

Molti meriti ha Sartori sul piano metodologico. Studiare oggi il costituzionalismo senza alcun riferimento alle scienze politiche sarebbe impensabile. Questa transizione fu persino inconsapevolmente favorita da personalità come Sartori. Oltre l’arricchimento metodologico, però, difficile dir del resto. Le intuizioni terminologiche di Sartori alimentarono un ventennio di antiberlusconismo fatto di blocchi contrapposti, di afasia e di reciproca destituzione (Sartori propose l’immagine del sultanato molto prima del “bunga bunga”). Proprio uno studioso di scienze politiche e di composizione degli interessi sociali avrebbe dovuto sapere che un Paese spesso così lacerato come il nostro non aveva bisogno di benzina sul fuoco e di argomenti umorali, quanto piuttosto di tolleranza, lavoro e pariteticità. A prescindere dalla legge elettorale perfetta, ça va sans dire