Nel Teatro dei Dioscuri, dietro al Quirinale, in Roma, è aperta una mostra dedicata all’opera meno nota del fotografo Pino Settanni (1949-2010). Egli ha ritratto o collaborato con molte celebrità del cinema e di una certa cultura, da Mastroianni alla Vitti, da Fellini a Guttuso. Le ottanta foto raccolte dai curatori Enrico Menduni, Gabriele D’Autilia e dalla moglie Monique, raccontano invece tutt’altro. Settanni, infatti, fu in varie occasioni “embedded”, al seguito delle missioni di pace dell’esercito italiano, nei Balcani e in Afghanistan. Da quei viaggi ha raccolto immagini intense di luoghi martoriati e dei volti, della vita quotidiana, della impossibile “normalità”, che, nonostante tutto, continuava. I curatori hanno poi accostato questi reportage alle foto in bianco e nero scattate fino al 1980 nella sua terra di Puglia. Ne viene fuori uno sguardo realistico, ad altezza d’occhio, senza la pretesa di un discorso antropologico. Un viaggio tra i vinti di tre “Sud” del pianeta, scrive Domenico De Masi nella prefazione al catalogo. E oggi altri vinti, da un altro sud del mondo, bussano alle nostre porte. 



Padroneggiando la tecnica fotografica, Settanni ha sperimentato anche l’elaborazione digitale dell’immagine, fino alla creazione di ritratti che sono ponte di passaggio con la creazione pittorica. La mostra ne raccoglie alcuni esempi. Ma l’esposizione romana sa parlare anche al visitatore meno esperto dell’arte fotografica. Tra i molti scatti (i muri crivellati e gli scheletri dei palazzi in Bosnia, i cimiteri di carri armati, le distese aride dell’Afghanistan, con donne il cui volto è il velo e bambine i cui occhi, invece, sono trasparenti) ne scelgo uno, perché attuale. 



E’ l’immagine di un “Perdùne”, protagonista della processione della Settimana Santa di Taranto. Chi la conosce, e Settanni, originario di quella terra sicuramente la conosceva, sa quale profonda intensità vive (viveva?) in quel rito. I Perdùni, vestiti di bianco, con un largo cappello in capo, procedono in coppia, scalzi, lentissimamente, per tutta la notte, con un caratteristico dondolare del passo, chiamato in dialetto “azzeccata”. Hanno il volto coperto, ma per umiltà, non per sottomissione come le donne afgane. Il loro passo si fa sempre più lento e solenne mano a mano che si avvicinano alla meta. E alla fine sembra quasi che non si muovano più. Ma tendono, si protendono. L’obiettivo di Settanni ha colto un “Perdùne” nell’atto in cui sta per posare il suo piede scalzo in terra, ma non l’ha ancora posato e sfiora l’asfalto con la punta inarcata del piede. Nell’era della prepotenza del video, la fotografia, la sua immobilità, talvolta sa rappresentare al meglio il dinamismo interiore dell’uomo e il travaglio a cui partecipa. Come la musica, lascia spazio a chi guarda, o ascolta, perché qualcosa, dentro, riecheggi.

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