Caro direttore,
la lezione che mons. Michele Pennisi, arcivescovo di Monreale, ha dedicato recentemente all’insegnamento di don Luigi Sturzo presso il Centro Culturale di Milano ha coinvolto in profondità tutta la mia esperienza umana e politica.
Sturzo è stato il promotore dell’impegno politico dei cattolici, è dunque ancora oggi il riferimento per capire cosa significhi tale impegno. Due punti estremamente significativi sono emersi dalla relazione di mons. Pennisi.
Il primo si ricava dal confronto fra don Sturzo e suo fratello, che gli dice: “in politica si deve mettere al centro la giustizia”. Don Sturzo lo corregge: “anche in politica si deve mettere al centro l’amore”. In tal modo afferma che la politica è una forma alta di carità e — cosa per me molto importante — che non c’è un dualismo fra fede e politica, ovvero non si cambia il senso della presenza. La fede conduce alla piena comprensione dell’umano ed è possibile comportarsi rettamente nella vita comune da parte di cattolici e non cattolici. Questo non vuol dire che si doveva fare il partito dei cattolici, anzi Sturzo riconosce che ci possono essere cattolici con tendenza culturali diverse e cita la differenza fra la sua proposta popolare e quella dei cattolici conservatori. Dunque don Sturzo si propone di costruire una presenza politica ben delineata nella democrazia italiana, mentre “popolare” vuol dire impegno sociale unificante fra le diverse condizioni di vita del popolo.
Il secondo punto lo traggo dall’appello “ai liberi e forti” del 1919. Questa chiamata rivolta apertamente a credenti e non credenti delinea l’unità consapevole di don Sturzo. Egli crede realmente nel fatto che in tutti gli uomini è iscritto un senso del vivere che si misura con le circostanze e le esperienze. Per cui i liberi sono cercatori di verità, e i forti sono costituiti da certezze fondate in una tradizione.
Nel proporre il programma del Partito Popolare risponde all’osservazione critica di chi dice che le proposte non sono soluzioni pratiche e dice: “non poteva essere diversamente; mentre i principi etico-politici, derivanti dai due punti fondamentali del programma, giustizia e libertà, sono le affermazioni che trasportano la teoria nel campo della politica, così il contingente politico, che è attuazione, troverà la sua soluzione man mano che si presenta, o che si pone, sotto forme e contenuto diverso; per cui non possiamo che trovare una linea di approssimazione, una via di tendenza, una soluzione temporanea, che chiami altre approssimazioni, altre tendenze, altre soluzioni, nel divenire perenne che è la vita, nel continuo intersecarsi di forme contrastanti e di elementi contradditori pur ispirati a principi fermi e solenni, che danno la guida della luce nel mondo”.
Si capisce così come il far politica non vuol dire né seguire i dogmi, né spaccarsi in un dualismo culturale che porta al compromesso fra cattolicesimo e cinismo.
Nella diversa impostazione che ha portato a fondare la Democrazia Cristiana dopo il periodo della dittatura fascista, le persone di fede potevano seguire questo modo sturziano di mettere l’amore al centro della politica, ma ci potevano essere anche riduzioni ciniche coperte dal nome cristiano del partito. Cosa che è diventata prevalente nella Dc dopo De Gasperi. Non a caso si formò quella tendenza a prendere dai comunisti la visione sociale, relegando la carità cristiana a fatto privato.
Oggi, nella grave crisi che investe la presenza politica in Italia, in ogni uomo impegnato in ogni partito si pone il problema identitario: “perché faccio politica?”. La questione della persona che si fonda su quello che viene prima della politica è decisiva per proporre programmi nella competizione democratica.
Per questo credo che si possa legittimamente parlare di attualità di don Luigi Sturzo.