La marea si sta alzando rapidamente e c’è un’anziana che cammina a piedi nudi sulla battigia. Va avanti e indietro in modo lento e ossessivo. La osservo dalla sommità di una panettone di cemento semiaffondato nella sabbia, un bunker della Normandia. Siamo a Utah, la prima spiaggia su cui gli americani sbarcarono alle 6.30 del 6 giugno 1944, l’alba dell’operazione Overlord. La donna volta la testa al mare aperto. “Vengo dal Maryland”, confida, “Utah è casa mia, perché qui sbarcò mio padre…”. È una liturgia che ripete ogni anno, al tramonto. E in effetti il suo incedere ha qualcosa di sacro, sembra una vestale. Ti porta dentro una storia più grande, che per il nostro immaginario ha i colori seppiati del Giorno più lungo (1962) o i rossi arteriosi del Salvate il soldato Ryan (1998). Per le giovani generazioni, magari cresciute di fronte agli scenari virtuali di Call of Duty, il D-Day è questo: un mare in tempesta che strapazza i mezzi da sbarco, i portelloni che si aprono dischiudendo un facile bersaglio per le mitragliatrici, i tedeschi invisibili che seminano morte dietro le feritoie… Fu l’inferno, scandito nelle cinque tappe dell’inizio dell’invasione: le spiagge ribattezzate Sword, Juno, Gold, Utah e Omaha.



Oggi la Normandia è un piccolo Eden, con giardini impeccabili e le celebri siepi che abbracciano il mare. Tutto è in ordine. C’è molto silenzio. Eppure tutto riporta al 6 giugno, a partire dalle indicazioni stradali che avvisano in merito ai luoghi di battaglia o alle postazioni di artiglieria.

Per viaggiare a ritroso nella storia si può partire dalla stupefacente vicenda di Arromanches. Su questa spiaggia giacciono ancora mammuth di ferro e cemento dell’estate del 1944. Qui si giocò il destino della Normandia. Gli angloamericani avevano bisogno di un porto per scaricare quotidianamente tonnellate di materiali. Così nacque Mulberry Harbour, un’idea fortemente voluta dallo stesso Churchill. Grazie al porto artificiale poterono essere sbarcati oltre 2 milioni di uomini e 500mila veicoli. 



Mulberry Harbour iniziò a vivere 24 ore dopo lo sbarco: per iniziare a gettare le sue “fondamenta” in mare, furono affondate tre grosse navi proprio di fronte alla spiaggia di Arromanches. In pochi giorni furono assemblati migliaia di pezzi prefabbricati: come un puzzle immane o il più grande Lego di tutti i tempi. Per chi volesse saperne di più, si può visitare il Museo inaugurato appena dieci anni dopo Overlord. L’edificio sorge proprio sulla spiaggia, circondato da bandiere e mezzi militari (tutt’intorno negozi con souvenir di militaria: può capitare di vedere bambini in tenuta cachi e con il tipico elmetto britannico…). All’interno del memoriale: proiezioni di filmati d’epoca, una riproduzione in scala del porto artificiale, incrostati reperti bellici emersi dal mare, divise e armamenti. 



Un’altra tappa museale obbligata è proprio alle spalle di Omaha Beach. Si tratta dell’Overlord Museum. È uno sconfinato hangar che raccoglie i mezzi dello sbarco, nato grazie alla passione di Michel Leloup che da bambino rimase conquistato dal tragico spettacolo della guerra e passò la vita a raccogliere cimeli. Una curiosità: nel bookshop si trovano modellini e soldatini di ogni genere, tra cui una sorta di imitazione dei Lego, con tanto di croce tedesca sui mezzi militari. Un elmetto-salvadanaio americano costa 16 euro, la tazza con la foto del D-Day 8 euro, il coltello a serramanico, 12 euro.

A Omaha gli americani persero più di 4mila uomini. Oggi l’erba arriva quasi fino al mare. Ci sono dune pacifiche e i camper dei turisti. Sulle prime collinette si scorgono ancora dei bunker inghiottiti dalla vegetazione. Il cemento intorno alle aperture è crivellato di colpi. Uniche cicatrici della battaglia immensa. L’universo grigio che immortalò Robert Capa con i soldati semiaffogati dietro i cavalli di Frisia sembra un altro mondo. Un silenzio assordante regna qualche collina più in là, a Colleville-sur-Mer, tra le bianche croci del cimitero americano, dove riposano 9400 soldati americani. Tra i caduti, Theodore Roosevelt Jr, figlio del presidente americano: fu tra i primi a sbarcare a Utah, aveva 56 anni e meritò la Medaglia d’onore. Sarebbe morto qualche giorno più tardi per un attacco di cuore a Sainte-Mère-Église, la prima cittadina liberata dai paracadutisti americani. Il simbolo del paese è la torre campanaria dove rimase impigliato con il suo paracadute John Steele, della 82esima Divisione aviotrasportata. Un manichino e un paracadute sulla chiesa ricordano a tutti oggi la sua storia. Proprio a fianco all’edificio sacro, c’è il museo che informa sugli aviolanci. È diverso dagli altri perché il suo zoom è fisso sull’attacco dal cielo. Tra i tantissimi video d’epoca, ce n’è uno in cui si vede lo sconcerto dei tedeschi durante l’attacco dei paracadutisti: la scena è quella di un formicaio impazzito. 

L’altro volto della guerra, quello dei tedeschi sconfitti, è forse più difficile da ricostruire. Per una ricostruzione dettagliata si può visitare “Le grand Bunker – Mur de l’Atlantique”, il museo di Ouistreham, a pochi km da Caen o l’intricato sistema di fortificazioni di Merville (con i bunker dipinti: sembrano le tipiche case della Normandia). I cimiteri tedeschi sono spogli di ogni retorica. Uno di questi ha un’alta croce nel mezzo del giardino circondata da una struttura circolare con migliaia di loculi. È Mont-de-Huisnes, poco lontano dalla meraviglia gotica di Mont Saint Michel. Una meraviglia dell’architettura di Dio che fa sentire più vicini al cielo. E non a caso ha ispirato l’intenso To The Wonder di Terrence Malick, il cui refrain ricorda: “Bisogna amare, anche correndo il rischio del fallimento”.