NEW YORK — Esiste, presso un’università dell’Italia meridionale, un Movimento per la giustizia il quale emana periodicamente vigorosi manifesti inviati fra altri alle massime autorità dello stato; e uno dei più recenti sviluppava la tesi secondo cui occorre criminalizzare il capitalismo. Tesi che ha il vantaggio di tutte le formulazioni nette; cioè invita per contrasto dialettico a riflettere su un’idea alternativa: quella dell’enorme forza creatrice del capitalismo. Per esempio: a chi lasci la briglia sciolta ai propri pensieri passeggiando per New York (senza per questo ambire al titolo di filosofo peripatetico), può accadere di soffermarsi sul flusso continuo di bellezza generato, anche in mezzo a tante storture e ingiustizie, dal capitalismo; o almeno da un capitalismo dinamico come quello statunitense.
Ed è importante la combinazione che si è venuta formando in questo senso fra le energie italiane e quelle americane. Un esempio recente è la donazione che un importante collezionista e bibliofilo newyorchese ha fatto alla biblioteca della Columbia University — alla quale ha regalato tutta la sua raccolta (più di 400 volumi) dei libri editi dalla casa fondata dal famoso tipografo Alberto Tallone negli anni Trenta: un artista (la cui tradizione è brillantemente continuata dagli eredi) che stampava con caratteri a mano da lui confezionati nella tradizione di Manuzio e di Bodoni, usando inchiostri speciali e carta pregiata, libri a edizione limitata (circa 300 copie per ciascuno), con un catalogo che spazia dai classici letterari e filosofici italiani e stranieri fino alla poesia contemporanea. La cerimonia di donazione, avvenuta nell’elegante biblioteca dell’Italian Academy di Columbia, è stata un simbolo concreto della sinergia fra la straordinaria tradizione italiana di artigianato artistico, il mecenatismo newyorchese e i centri locali di eccellenza nella ricerca. E un altro esempio è il Center for Italian Modern Art (Cima), fondato nel 2013 in un loft di Soho dalla figlia del grande collezionista d’arte Gianni Mattioli — centro che presenta mostre monografiche e incontri di ricerca, e offre borse di studio a giovani ricercatori.
A proposito di Columbia e capitalismo dinamico: è cominciato, alla grande, il benefico sventramento di Manhattanville, a West Harlem. Un’area abbastanza povera, in quelli che fino a ieri erano i confini periferici di Columbia, grosso modo fra la 125esima e la 135esima strada — una di quelle che si chiamano eufemisticamente zone di marginalità industriale, ora “riconquistata” imperialmente dall’università. La quale inaugura questo grande ampliamento del suo campus con due edifici progettati da Renzo Piano: un centro per le neuroscienze e una scuola d’arte con annessa galleria (brillante matrimonio simbolico fra scienza e umanesimo). Tutto è stato organizzato, sembra, con grande sistematicità, attenzione alle diverse esigenze locali, calcolo dei risarcimenti eccetera (così che le iniziali proteste si sono placate): e adesso questa parte di Harlem mostra il volto della bellezza. Anche se ad alcuni abitanti del quartiere è rimasta una certa nostalgia per il panorama urbano — fra cui uno dei pochi tratti di metropolitana all’aperto, la “elevated” — che si poteva vedere a spicchi dalle finestre e finestrelle di una parte degli edifici circostanti. Un panorama che aveva una sua peculiare bellezza ferrigna (anche l’apparente squallore può essere bello), e che adesso è bloccato da quei grandi dadi che sono i nuovi edifici.
Meno benefico, forse, lo sventramento progettato dalla rivale di Columbia, New York University (che nonostante il nome è, come Columbia, una grossa e ricca università privata), perché il suo allargamento verrebbe a sfigurare alcune delle strade e stradine di Greenwich Village a cui è ancora legata la storia della cultura newyorchese; a riprova, e sembra di dire un’ovvietà, che lo sviluppo capitalistico può produrre bruttezza oltre che bellezza. Ma quello che non è ovvio è che quando il capitalismo non accetta la drammatica indissolubilità del rischio-bellezza e del rischio-bruttezza si condanna, come accade spesso in Italia, a una stagnazione che può risultare, né in autentica bellezza né in coraggiosa bruttezza, ma solamente in piattezza.
Il rischio creativo del conflitto bellezza/bruttezza risulta particolarmente evidente (è il caso di dire: salta agli occhi) nelle mostre più militanti dedicate alle arti visive, come la Biennale del Museo Whitney, inaugurata due mesi fa nella sede nuova del museo, all’estremità sud della famosa passeggiata urbana detta “High Line” (la sede, com’è noto, è opera ancora una volta di Renzo Piano; ed è più bella quando è percepita dall’interno verso l’esterno — lungo le terrazze aperte al panorama di luce e tetti e acque — piuttosto che viceversa).
A dire il vero, la mostra di questo biennio risulta essere una documentazione vasta e interessante, ma non particolarmente eccitante. Un noto critico (Peter Schjeldahl) ha voluto domandarsi che cosa significhi oggi, questa Biennale presentata all’indomani di quelle elezioni presidenziali che continuano a innervosire tanti americani; e ha parlato di una mostra di transizione, che lascia aperto l’interrogativo su che cosa sarà la prossima Biennale, in piena epoca Trump. Ma questo tipo di determinismo, con tutto rispetto, sembra un po’ forzato. I pittori continueranno a svolgere i loro difficili giochi di equilibrio tra varie possibilità stilistiche non particolarmente chiare e non particolarmente nuove; e continueranno a destreggiarsi fra le esigenze del loro talento (o almeno, del talento di molti di loro) e le richieste delle grandi gallerie e dei ricchi acquirenti. E’ la normale amministrazione dell’eccezione: insomma, è il capitalismo.