Hilary Putnam, scomparso nel marzo dello scorso anno, uno dei più noti pensatori contemporanei, appartiene all’area della filosofia analitica americana, ha dialogato con le più differenti e rilevanti correnti del pensiero del ‘900, ma anche con grandi autori del passato quali Aristotele e San Tommaso. La capacità di muoversi nei più diversi ambiti disciplinari si è unita in lui con l’attitudine ad approfondire alcuni fondamentali questioni della filosofia, concepita come una sorta di “educazione degli adulti”. Si è quindi occupato del realismo e della verità, del linguaggio, del rapporto tra fatti e valori, della relazione tra filosofia e scienza, del rapporto tra mente umana e computer, rivedendo sempre la propria posizione e nello stesso tempo rimanendo fedele ad alcune intuizioni iniziali. 



Putnam, all’inizio del suo percorso filosofico, ha abbracciato una posizione definita da lui stesso nei suoi primi scritti “realismo metafisico”; ha poi criticato questa sua stessa concezione passando a sostenere il cosiddetto “realismo interno”, secondo il quale noi possiamo conoscere la realtà solo in quanto “filtrata” da schemi concettuali e linguistici condivisi; infine ha avvertito la necessità di “ritornare” ad un “realismo naturale”, in grado di render ragione anche di alcune intuizioni del senso comune.



In Naturalism, Realism and Normativity, pubblicato nel 2016, riaccetta addirittura per sé la definizione di “realista metafisico”, anche se in senso diverso da come lo intendeva all’inizio della sua speculazione, in quanto ritiene esista un mondo reale che è ampiamente indipendente dalle nostre credenze e convinzioni. Negli ultimi anni della sua riflessione, a partire da Mente, Corpo, Mondo, tradotto in italiano nel 2003, Putnam si è concentrato sull’elaborazione di un concetto di percezione che abbandoni la cosiddetta teoria “dell’interfaccia”, propria della filosofia moderna, secondo cui ciò di cui facciamo esperienza non sono le cose, ma i dati sensoriali relativi ad esse; affermando invece con decisione che le cose possono essere da noi incontrate. Uno degli aspetti più originali del suo pensiero sta proprio nell’aver messo in luce come la teoria della percezione che si è affermata nella modernità sia la maggior responsabile dell’abbandono di una prospettiva conoscitiva genuinamente realista. 



Putnam quindi, in collegamento anche con gli studi più recenti delle neuroscienze e della psicologia, ha via via formulato una concezione innovativa rispetto ai suoi precedenti lavori, che al momento della sua morte era ancora in via di elaborazione. In alcuni scritti contenuti in Naturalism, Realism and Normativity, ha messo in luce la complessità dell’approccio sensoriale dell’uomo alla realtà, che deve unire insieme le caratteristiche “qualitative” (ad es. i colori) con cui la cosa si presenta, al nostro modo di accoglierle; si è impegnato a mostrare  quindi che le qualità che cogliamo sensibilmente sono reali proprietà delle cose, ma di tipo relazionale, poiché ci danno informazioni sugli enti, però in quanto sono percepiti da noi. Il problema che rimane aperto è vedere come tale “relazione” avviene, servendosi dei dati più importanti, come già detto, delle neuroscienze, ma senza nessun riduzionismo, tenendo conto quindi anche della dimensione originariamente intenzionale della conoscenza. 

In relazione alle mutate posizioni a riguardo del realismo, Putnam ha anche rivisto la propria concezione di verità; egli ha quindi via via abbandonato la tesi secondo cui essa coinciderebbe con la dimostrabilità in condizioni conoscitive ideali, poiché vi sono proposizioni vere la cui verità però non può essere accertata. L’interesse di tale concezione sta nel fatto che salva una prospettiva realista, poiché il mondo non è riducibile a ciò che conosciamo di esso, ed anche la finitezza della ragione umana, che non è la “misura” della verità. Putnam si è confrontato quindi con la teoria della “corrispondenza” — vero è il giudizio corrispondente alla realtà — di cui mostra indubbiamente i limiti, ma anche alcuni aspetti positivi, nel senso che le teorie vere devono “rispondere” alla realtà, devono essere “responsabili” verso di essa. Il pensatore americano in La filosofia nell’età della scienza, pubblicata nel 2012, scrive che tutte le alternative a tale concezione si dimostrano incoerenti — “ad esempio, come possiamo parlare di una rivedibilità pubblica delle asserzioni senza riferirci a persone e ad atti di asserzione?” — oppure costituiscono “un gergo iniziatico postmoderno”. Le affermazioni di Putnam suggeriscono quindi un interessante legame di significato tra il termine “rispondere” — la conoscenza umana è un rispondere alla realtà e quindi un essere responsabili verso essa — ed il termine “corrispondere”; questo contiene in sé il riferimento alla consonanza dei nostri giudizi alla realtà, ma anche un potenziale “rispondere insieme” ad essa, con una significativa valorizzazione del carattere relazionale e dialogico della conoscenza. 

(1 – continua)