I libri di Massimo Recalcati vanno a ruba. Gli editori se li contendono e molti lettori attendono i nuovi arrivi sugli scaffali di Amazon o nelle librerie, perché ne apprezzano la prosa scorrevole e i suggestivi approcci al ricco patrimonio psicoanalitico. Segno quest’ultimo che la psicoanalisi ha ancora qualcosa da dire anche all’epoca di una psicologia accademica imperante, che in gran parte l’ha rimossa in favore delle neuroscienze, ovvero in favore di un sapere iperspecialistico che confonde il lavoro dei neuroni e l’attivazione delle aree corticali con il lavoro del pensiero individuale nella sua doppia articolazione di pensiero conscio e inconscio.



L’ultimo lavoro dello psicoanalista milanese si intitola Il segreto del figlio (2017). È da poco uscito per i caratteri di Feltrinelli e va ad aggiungersi alla trilogia iniziata tempo fa con Il complesso di Telemaco (2013), Che cosa resta del  Padre (2011) e Le mani della madre (2015). Il libro è il frutto di alcune conferenze a tema, nelle quali l’autore si muove agilmente tra le interpretazioni, ormai classiche, che la psicoanalisi ha proposto di alcune figure della letteratura, antica e non, iniziando con Edipo, passando per Amleto, per concludere, in modo originale, con l’analisi del Figliuol prodigo, la parabola di Gesù riportata nel Vangelo di Luca. Un testo che fa sì parte della letteratura universale, ma che sarebbe ingenuo trattare come semplice letteratura e che Recalcati getta nell’agone del dibattito culturale senza temerne alcuna debolezza al cospetto di Sofocle o di Shakespeare, ma neppure di Freud o di Lacan. 



La figura del figlio è ricapitolata attorno al tema dell’eredità, che Recalcati combina con l’erranza e l’ereticità: eredità con beneficio di inventario come direbbe — forse più semplicemente e più efficacemente — Giacomo Contri, che di eredità non fa che parlare da quarant’anni. Ma andiamo con ordine.

L’Edipo di Sofocle ha conosciuto una sua seconda giovinezza dacché Freud ne ha fatto il perno del famoso complesso, utilizzando la notorietà della tragedia per divulgare alcune (scandalose) acquisizioni che allora andava facendo a proposito del legame erotico del figlio col genitore dell’altro sesso, che culmina nella proposta sponsale: da grande ti sposo. Dopo Freud questo è semplicemente un dato di osservazione e di ascolto per qualsiasi genitore, che non potrà che sentirsi onorato dal potersi rendere utile — pro tempore — come nave scuola, ci si augura sufficientemente attrezzata a navigare nel mare, a volte periglioso, degli affetti.



Recalcati rilegge l’episodio di Edipo facendone l’emblema del figlio “come soggetto sfasato, dissestato, slogato, decentrato”, inesorabilmente intrappolato nell’infausto destino inaugurato dal progetto infanticida del padre Laio e compiutosi con il parricidio inconsapevole da parte del figlio, dopo un litigio, squalificante per entrambi, per una ridicola (oppure simbolica) questione di precedenza stradale. 

Ecco il punto al termine della disamina: con queste premesse non se ne esce. Il figlio, pur innocente è condannato a rispondere “mimeticamente alla violenza del padre”, e ben che gli vada dovrà rassegnarsi a prendere su di sé la pena (la cecità di Edipo) di una colpa mai compiuta. Nel dedalo delle riflessioni, lasciando costantemente sullo sfondo il padre “onnipotente” indagato da Freud in Totem e Tabù (1913), Recalcati chiama in causa Abramo, il patriarca che sembra replicare l’infanticidio di Laio, riproponendo l’identico aut-aut tra padre e figlio, salvo appunto la variante biblica che mette termine al sacrificio del figlio. L’interpretazione dell’episodio biblico, come di numerosi altri passi è mutuata da Lacan: “Il coltello di Abramo non colpisce il figlio ma l’animale che lui stesso è stato nel suo desiderio di dominio sul figlio. Colpisce l’ariete come immagine di una concezione superata della paternità in quanto ‘potenza di possesso'”. Il passaggio attraverso la vicenda di Abramo fa da premessa alla rivisitazione della parabola del Figliuol Prodigo, che a Recalcati piace chiamare del Figlio ritrovato. “Nel mondo greco il dono del perdono non trova spazio. La forza del destino si impone inesorabilmente sulla vita, la piega, la spezza. Diversamente, il padre del Figlio ritrovato sospende ogni forma astratta e universale della Legge, per far posto a un’altra Legge, quella eccentrica e singolarissima dell’amore e del perdono”. Il padre del cristianesimo introduce una dissimmetria che interrompe l’inesorabilità impersonale della legge, tipica della tragedia greca: “consente una nuova inclinazione, un piccolo scarto, una deviazione, una nuova opportunità, l’opportunità — come definiva Lacan la psicoanalisi — di ‘ripartire di nuovo'”.  

Resta da sondare la natura del segreto che dà il titolo al libro. L’autore pesca di nuovo in Lacan, che nei Nomi del Padre (1953-1963) mette in evidenza la trascendenza del figlio, quasi che il figlio rappresenti una terra incognita per il padre. Per Recalcati senza questo iato non può fiorire la libertà del figlio, così come per Epicuro o Lucrezio (risuscitati per l’occasione dall’autore), senza il Clinamen non si dà — tout court — la libertà.

Guardata da vicino la relazione padre-figlio sembra spaventare Recalcati che sente fortissima l’esigenza di inserire una spaccatura tra i due. Forse perché con le premesse dello strutturalismo lacaniano il figlio finirebbe sempre per soccombere. Considerazione realistica, visto che per gran parte della vita i rapporti di forza — materiali e simbolici — pendono a favore del padre. Salvo rintracciare questa rottura altrove, ovvero nell’esperienza stessa del padre, che non inizia se non come esperienza di figlio. È questa sfasatura interna dell’esperienza del padre a saldarla all’esperienza del figlio, fondandone l’amicizia. Nessun segreto.