Devozione e ragion di stato, coraggio contro potere. Sono solo alcune delle dicotomie entro cui racchiudere Antigone, tragedia di Vittorio Alfieri messa in scena nel 1782. Una tragedia intensa e spesso cruenta, che rielabora la mitologica figura già soggetto dell’omonima opera di Sofocle. Alfieri, dunque, per dare voce alle proprie inquietudini sceglie un’eroina ben nota al grande pubblico e dal difficile trascorso: frutto dell’incestuosa relazione tra Edipo e la madre di quest’ultimo Giocasta, sorella di Eteocle e Polinice, eredi designati al trono della città di Tebe dopo il ritiro del padre, Antigone assurge ad estremo baluardo della giustizia.
La donna, infatti, si oppone strenuamente al tiranno Creonte, subentrato al potere dopo che Polinice, estromesso dal fratello, ha dato il via ad una sanguinosa lotta ed è intenzionato a dare degna sepoltura solo ad Eteocle. Sta qui, nella figura del tiranno, il punto focale delle riflessione alfieriana: a differenza del precedente sofocleo, nell’opera dell’astigiano il decreto regio si percepisce come invalidato fin dal principio. Alfieri, infatti, era fortemente convinto che nessuno, in veste di tiranno, potesse compiere un qualsivoglia atto giusto. Al despota è negata ogni ragion d’essere. Il tiranno, nella visione alfieriana, ha ribaltato la funzione stessa del potere: piuttosto che curarsi del bene comune, egli si preoccupa esclusivamente di conservare il proprio potere, non esitando a violare i confini della giustizia. In una struttura di potere rovesciata, ne risultano inevitabilmente stravolti anche i valori proposti. L’acuta analisi di Vittorio Alfieri arriva ad affermare che in un sistema dispotico i sentimenti di Antigone rappresentano un pericolo per la sopravvivenza stessa del regime, che l’innocenza si tramuta in colpa e il dovere sacro di concedere una sepoltura in un delitto.
Messaggio forte e senza filtri quello di Alfieri, che ci invita a prendere coscienza di quanto fragile sia l’equilibrio sopra il quale costruiamo le nostre certezze, due delle quali sono speranza e libertà. Nessuno può privare, a prescindere dal ruolo che ricopre, un altro essere umano di sperare in qualcosa di meglio, nessuno può obbligare un altro essere umano a seguire un’idea che non combacia con la sua né condannarlo perché il suo Dio ha un nome diverso. Non dopo Alfieri, non dopo l’Olocausto o i crimini dell’Isis.
Adesso sappiamo cosa sono libertà e speranza, si direbbe. Alfieri non faceva che criticare i suoi contemporanei che con facilità si piegavano alle ragioni dell’assolutismo: questo potrebbe emergere da una lettura superficiale. Ma non bisogna mai dimenticare la forza visionaria della letteratura: Alfieri è riuscito a guardare talmente più avanti rispetto al suo tempo che il suo messaggio, ancora oggi, non può e non deve risultarci indifferente. Perché un sistema dispotico è sì un sistema in cui Antigone viene condannata a morte per aver risposto ad un’esigenza di tipo morale, ma non solo. Il sistema dispotico è talmente multiforme da sapersi camuffare con abilità dietro avvenimenti apparentemente isolati tra loro o di piccola importanza. Non è forse dispotico incarcerare un attivista che incita la piazza ad una pacifica contestazione, come avvenuto recentemente a Mosca? Non è forse dispotico privare qualcuno di libertà e speranza mandare l’esercito contro dei musulmani che pregano mentre un cordone di cristiani li protegge dalla guerriglia, come avvenuto in Egitto qualche anno fa, all’epoca delle primavere arabe? Non è forse intenzione di chi ha minacciato terribili ripercussioni in seguito alla visita del Papa in Egitto privare il mondo della speranza che il dialogo possa aprire una nuova via?
“Pochi impuniti danno ai molti licenza” dice Creonte nell’opera di Alfieri. Il quale, in conclusione, ci invita a riflettere proprio su questo: che basta poco per riaccendere uno spirito di libertà e di speranza ed è per tal motivo che esse sono tanto temute e, ancora oggi, messe in discussione. E’ nostro dovere non darle mai per scontate e tutelarle, non considerare mai la letteratura (e le conseguenti derivazioni cinematografiche che da essa traggono ispirazione, come per esempio Hunger Games in cui il tiranno dell’immaginaria Panem pronuncia parole molto simili al Creonte alfieriano) solo il racconto di una storia impersonale,ma il racconto della nostra storia.E’ nostro dovere essere Antigone laddove Creonte fiacchi la nostra volontà.