Ricorre oggi il 25esimo anniversario della strage di Capaci in cui furono trucidati Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e tre uomini della sua scorta.
25 anni cominciano ad essere tanti per rendere vivo il ricordo di avvenimenti a cui una buona fetta della popolazione italiana non ha partecipato, per il semplice fatto che non era nata. E ciò è proprio quello che ogni anno colpisce di più quando si apre il portellone della nave che porta migliaia di bambini di tutta Italia che vanno prima all’aula bunker e poi all'”albero Falcone” in Via Notarbartolo per ricordare quel tragico 23 maggio del 1992.
Eppure questo rimane di anno in anno il problema più importante perché il venir meno dei testimoni, di qualunque evento siano stati protagonisti, genera oblio.
A questo oblio fanno fronte le numerose cerimonie di ricordo e commemorazione che come sempre, anche quest’anno, terranno vivo non solo il sacrificio di quelle cinque persone, ma anche l’impegno dei tanti, tantissimi che in vario modo hanno raccolto il loro messaggio e trasmesso la loro testimonianza.
Questa circostanza è anche occasione per la pubblicazione di qualche novità editoriale che in vario modo e da svariati punti di vista contribuisce ogni volta a raccontare non solo quei fatti, ma soprattutto a ricordare quegli uomini che ne furono protagonisti.
Quest’anno merita attenzione Giovanni Falcone: le idee restano (San Paolo) presentato a Palermo domenica sera, con una duplice firma: quella di Maria Falcone, colei che più di tutti ha raccolto la fiaccola lasciata accesa dal fratello Giovanni, e quella di Monica Mondo, giornalista nota soprattutto al pubblico televisivo, per la sua attività a Tv2000.
Un libro che non ha in animo di svelare alcun segreto processuale, ma di far conoscere un Giovanni Falcone nel suo spessore più familiare e umano. Il racconto da parte della sorella Maria del fratello più piccolo, quello su cui si appuntavano i progetti della famiglia e quello che dalla famiglia ha tratto i lati più salienti del suo carattere, noto all’opinione pubblica solo quando è divenuto un “personaggio famoso”.
Tutto ciò raccolto e affidato alla penna di una giornalista che spiega così da dove è nata l’idea del libro: “Ho conosciuto Giovanni Falcone. Lavoravo nell’ufficio stampa libri della Mondadori Libri. Mi avevano affidato la promozione di un libro di Claire Sterling, studiosa del fenomeno mafia, ovviamente estimatrice e amica di Giovanni Falcone, il quale aveva appena pubblicato Cose di cosa nostra, scritto con la giornalista francese Marcelle Padovani. Un incontro con loro due sarebbe stato un evento, e fu proprio così”.
Monica Mondo riesce con semplicità e precisione a comunicare non solo avvenimenti e circostanze dello svolgersi della vista in una importante e influente famiglia palermitana, ma anche a ricostruire il contesto sociale, ambientale, amicale in cui si è dipanata la fanciullezza e la giovinezza di Giovanni.
Innanzitutto la città di Palermo. “Giovanni Falcone è il meglio della sua Sicilia. Palermo bisogna attraversarla, vedere il contrasto tra puzza e lusso, tra ricchezza e povertà, esclusione e raffinatezza d’altri tempi. Bisogna fermarsi a leggere le targhe sui muri scrostati, sostare ai piedi dei baobab di piazza Marina, guardare il mare, mangiare un arancino, pensare alle ferite di questa nobile città, con un occhio all’azzurro confortante del cielo e uno alla montagna, nera per la distanza, che la sovrasta”.
E poi la Kalsa, il quartiere in cui Falcone è nato e vissuto e dove la sua storia si è incontrata con tanti uomini di entrambi gli schieramenti, da Palo Borsellino a Tommaso Buscetta.
“Stavano bene i Falcone — si legge nel libro —, erano tra le famiglie rispettabili della Kalsa. Storico quartiere di Palermo, il cui nome deriva dall’arabo Al Khalisa, la pura, l’eletta. Là dove l’oriente è mitigato dal rigore normanno e la sua fantasia rinasce nelle volute barocche, là dove i locali alla moda si mescolano alle botteghe popolari e, agli angoli dei vicoli della Vucciria, si trovano ancora pentole fumanti con i “babbaluci”, le lumachine speziate servite in cartocci fumanti, o i panini con le panelle”. “Oggi qui — scrive sempre Monica Mondo — ci giocano i ragazzi, vanno in skate e parlano di calcio, sono quasi tutti juventini. Hanno creste colorate in testa e parlano in dialetto stretto. ‘A noi non era permesso giocare in strada con gli altri bambini’ racconta Maria. ‘Papà era molto attento alle distinzioni sociali’. Giovanni invece era un maschio, aveva un’indipendenza consentita solo a lui e all’oratorio dei Carmelitani stava con tutti. Le ragazze guardavano la vita scorrere dal balcone. Comunque era una vita, c’era il senso di una comunità.
Il carattere di Giovanni si forgia innanzitutto in famiglia, in cui vivono forti personalità, dalle “vecchie zie, sempre signorine, tanto devote quanto moderne”, allo zio acquisito “Benedetto Violante, che fu un vero libertino in gioventù” e che sposò una delle zie “non più in età da marito”. Ecco il ricordo di Maria trascritto da Monica: “Lo zio artista era ormai vecchio e un po’ smemorato quando i ragazzi Falcone crescevano, tuttavia esercitò una grande influenza su Giovanni. Era antifascista, e scatenava in famiglia discussioni e reazioni accese. Mamma Luisa, che aveva stampato in cuore il senso dello stato e della patria cui aveva regalato un fratello, vedeva in Mussolini un garante di questo sentimento. Era una donna priva di cultura politica, aveva studiato in casa, e per lei quel parente pittore era un elemento scardinante, anche se sapeva affascinare e aprire la mente”. Ed ancora. “In famiglia era forte il senso civile, c’era lo zio sindaco, il fratello di nonna, Pietro Bonanno, che, in un solo anno di governo della città, prima di una morte improvvisa, costruì il moderno ospedale e i lidi sul mare per i più poveri”.
L’amore per lo sport di Giovanni traspare più volte nelle pagine di Monica Mondo. “Più grandicello, decise di mettere su muscoli in palestra: ginnastica artistica, come si usava in quegli anni, parallele, anelli e spalliera. Una brutta caduta gli causò la frattura del gomito, ma non disse nulla; nonostante le cure, quel braccio trascurato faticava a reggere il peso del corpo. Se non poteva essere il primo alle parallele, avrebbe cambiato sport. E divenne allora un piccolo campione di canottaggio: eccolo ritratto in posa, per evidenziare la muscolatura, conscio di tante medaglie. ‘Vedi’ diceva al compagno di doppio ‘se non abbiamo vinto stavolta dobbiamo chiederci dove abbiamo sbagliato, rivedere la strategia’”.
Nel libro si annotano anche altre personalità che hanno contribuito negli anni dell’adolescenza a forgiare il carattere di Giovanni. Tra tutti spicca quello del professore Salvo “che tutti conoscevano a Palermo: colto, controcorrente, severo. Fu lui a formarlo, ad aprirgli la ragione e acuirgli il senso della critica, forse troppo. Forse fu proprio il professore il tramite per il suo allontanamento dalla fede. Ma è un bene che questa si alleni con l’esercizio duro della ragione, non è un male se deve combattere e apparentemente affievolirsi, per diventare più forte”.
Questa carrellata di personaggi si conclude così: “Gli incontri che ci sono dati con le persone rette e perbene non sono mai per caso, non sono mai un ostacolo, come nessuna condizione del vivere può essere obiezione al vivere, e al suo significato. Forse un cristianesimo di poche domande e poche risposte non diceva più nulla a Giovanni; forse, al di là delle regole e dei riti, avrebbe voluto un incontro che potesse soddisfare le inquietudini della giovinezza. Forse era avanti, e aveva ragione. O forse, per chi crede, il buon Dio aveva scelto per lui un’altra strada, che pareva lontana, e invece correva parallela, verso la verità. ‘Ho pensato tante volte che l’avesse proprio plagiato, questo professore austero di storia e filosofia, illuminista e liberale, a cui pure devo moltissimo. …. Era un bell’uomo, preparato, saggio, e sapeva suscitare passioni’. Giovanni era un raziocinante, le considerazioni del professore facevano presa su di lui, e lo allontanarono dalla religione, quella esibita, almeno. Una religione indotta, che era anche un insieme di formalità e abitudini. Dopo gli anni del liceo non rimase nulla, forse. ‘Tu te lo devi chiedere: ma è vero o no? I dubbi devono esserci. Poi io rispondo sempre che, da cristiana, vivo più consolata e serena’. Allora, lo fai solo per questo, mi dicono. Anche…”.
Potremmo dire che il libro si divide in due parti. Vi è, infatti, una seconda parte in cui la ricostruzione degli avvenimenti è incentrata prevalentemente sugli aspetti più impegnativi dell’ormai giudice Falcone. Una parte certo più difficile da seguire soprattutto per chi, per motivi di età o di situazione geografica, non ha vissuto con partecipazione e trasporto gli anni più duri del magistrato Falcone, quelli nei quali insieme alla raggiunta notorietà, dopo le condanne del maxiprocesso, dovette combattere contro tanti nemici interni ed esterni al suo stesso ambiente, mentre la mafia non gli dava tregua. Ma questo può non essere un limite della ricostruzione fatta da Monica Mondo, sia perché aiuta a conoscere e capire buona parte di quanto accadde in quegli anni, sia perché fa da pendant, quasi da giustificazione, alla prima parte, sempre avvincente e coinvolgente.
Emerge in tal modo un Giovanni Falcone che prima di essere magistrato e vittima della mafia è stato un uomo. Un uomo che nella normalità di una vita sempre complicata ha saputo amare e soffrire come ciascuno di noi. Un uomo che di fronte alle privazioni conseguenti alla scorta che aveva sempre, riusciva a giocare a ping pong con i nipoti, a gustare i piaceri della cucina, meglio se fra le mura domestiche piuttosto che in un ristorante, a fare lunghe nuotate, finché non dovette rinunciarvi dopo il fallito attentato all’Addaura, a tenere alto il morale della sua famiglia e di quella di Paolo Borsellino, durante il periodo in furono “reclusi” all’Asinara per istruire il maxiprocesso.
Dopo 25 anni Giovanni Falcone rimane inesorabilmente definito da due parole: martire ed eroe. Ma è bello ricordarlo anche come uno che non avendo certo “studiato” per divenire tale, ha saputo seguire quanto la vita man mano gli preparava per diventare innanzitutto un uomo, o meglio “un grande uomo”.