E’ uscito il libro Vittorio Sgarbi spiegato a mio figlio del critico d’arte Luca Nannipieri, edito da Aliberti. Ne parliamo con l’autore in questa intervista.
Perché, Luca Nannipieri, ha voluto scrivere un libro su Vittorio Sgarbi?
Propongo Vittorio Sgarbi ministro della cultura del prossimo governo italiano, qualunque sia il suo colore politico. Ne ho scritto un libro perché è l’unico studioso che riesce a riempire le piazze e i teatri di ogni città d’Italia parlando d’arte; è l’unico studioso che viene richiesto a fare l’assessore alla cultura da Milano a Urbino, da Cosenza a Venezia; il suo nome, ripetuto in tv, radio, giornali, fa aumentare le vendite. Comunque si giudichi la sua figura, Vittorio Sgarbi è “un fatto sociale e culturale” che non può essere spocchiosamente ignorato, come fa la gran parte degli accademici italiani.
Quale differenza c’è tra Sgarbi che parla di Caravaggio e Roberto Benigni che parla di Dante, coinvolgendo entrambi migliaia di spettatori nelle piazze?
Entrambi evidenziano il fallimento delle università. Quanto più nei dipartimenti il sapere è oligarchico, esclusivo, recintato, tanto più Sgarbi e Benigni avvicinano all’arte e alla conoscenza tante persone, tanti giovani, che l’università non riesce o non vuole nemmeno avvicinare. Ma mentre Benigni è una star sentita irraggiungibile, Sgarbi lo trovi in una pieve, in un oratorio, in un palazzo comunale di Iolo, Castell’Arquato, Ginosa, Santa Sofia, a studiare una pala d’altare, un reliquiario, un distacco d’affresco, un anonimo del Quattrocento. Benigni è famoso, Sgarbi è popolare, nel senso che non hai mai staccato il suo corpo dal popolo.
Come giudica nel libro le ospitate televisive del noto critico d’arte?
Durante la mia rubrica d’arte su RaiUno, al Caffè di UnoMattina, Sgarbi mi disse: quando parlavo alle 6 di mattina di Michelangelo non mi ascoltava nessuno; ho iniziato a dire “stronzo” e mi ascoltano tutti. Sgarbi ha capito un movimento fondamentale della televisione: ci sei se colpisci, cioè se metti in crisi la garbatezza che televisivamente è una gabbia. Se niente ti contraddistingue, in televisione arrivi e vai via.
Dunque condivide tutto ciò che fa o dice Sgarbi?
Cosa ce ne importa di condividere tutto ciò che fanno gli intellettuali, gli sperimentatori, i poeti come D’Annunzio, Marinetti, Carmelo Bene, Pasolini? Importante è la loro forza d’urto, di sconquasso, di scompaginamento. Sgarbi fa parte di questa schiera di “sconquassatori”, di personalità, molte rare nella storia, che arrivano e, con la loro forza espressiva, corporea, di vita, di vitalità, di creazione, di scandalo, disordinano il modo di pensare dominante.
Sgarbi ha letto il libro?
Mi chiama l’editore e mi dice: “Gli è piaciuto così tanto il tuo libro che ci ha scritto il suo avvocato”. Dopo qualche giorno Sgarbi lo distribuiva in dono ai suoi amici. Come persona è così, ed è bene averlo così: non prevedibile, non scontato. A lui, come anche a Pasolini, piace molto di più il dissenso che il consenso, perché il dissenso mette in luce l’originalità di una posizione, mentre il consenso è pigro.
Avete mai litigato?
Lo faremo. Alle Iene, su Italia1, mi ha dato tre o quattro volte del coglione, ma è un gesto d’affetto, di attenzione. Forse non mi chiamerà mai un talebano, come ha fatto con Salvatore Settis e Tomaso Montanari, ma litigheremo perché non sono il suo cameriere, ma un indisciplinato “allievo”, e gli allievi devono disobbedire al maestro. Anzi, la disobbedienza al maestro è la sua vera consacrazione. Tu consacri un maestro quando gli disobbedisci. Tanto più metti in discussione in modo radicale la tradizione quanto più dimostri di amarla, di esserne visceralmente riconoscente.
Vittorio Sgarbi e Philippe Daverio. Qual è il lascito più duraturo di queste personalità tra arte e televisione?
Di Vittorio Sgarbi ho scritto nel libro. Lui rimarrà nella storia: la sua fame di bellezza, e di conoscenza della bellezza, il suo desiderio che la bellezza non si spenga dentro di noi, è una sfida centrale. Philippe Daverio, invece, è una fiaba: lo ascolti parlare come ascolteresti Collodi leggere Pinocchio mentre lo stava scrivendo.
Gillo Dorfles?
E’ stato ed è tuttora, con i suoi 107 anni, uno straordinario cane da tartufi, nel senso che il suo fiuto, ovvero il suo interesse critico, non ammette soste. Walter Benjamin, Umberto Eco e Gillo Dorfles sono, a vari livelli, tre diversi studiosi che hanno sempre percepito il sapere come un campo illimitato in cui muoversi e indagare senza autolimitazioni, dall’estetica medioevale a Topolino, dal kitsch alla serialità dell’opera d’arte, dal design a Mike Bongiorno.
E Achille Bonito Oliva?
E’ stato, con Arturo Schwarz, il massimo rappresentante nell’ultimo mezzo secolo del critico militante d’arte contemporanea. Bonito Oliva con la Transavanguardia e Schwarz con il Surrealismo (in parte anche Gillo Dorfles con il Movimento Arte Concreta), hanno testimoniato il fatto che il critico non sia un indisturbato giudice che guarda dall’alto la scena artistica, ma scende sul palco, parteggia, combatte, dibatte, tifa, proclama, inveisce. Questo rende Bonito Oliva e Schwarz figli e testimoni del loro tempo, ma anche fermi e fermati dalla corrente artistica che hanno voluto promuovere. Li vedo ora come combattenti fermi; mentre Vittorio Sgarbi non ha mai appoggiato dichiaratamente nessun movimento, nessuna avanguardia, ed è così più libero di danzare e muoversi tra modernità, contemporaneità e antichità delle nostre arti.