La discussione sulle stragi di Capaci e, di fatto, di Via D’Amelio, dove morirono i giudici Giovanni Falcone (insieme alla moglie), Paolo Borsellino e le loro scorte, anche 25 anni dopo sembra destinata a rimanere prigioniera del suo limite di sempre. Non intende prendere in considerazione una domanda cruciale: l’avvio della campagna stragista da parte di Cosa nostra fu davvero un affare, segnò un dividendo positivo per gli interessi e l’immagine di Riina, Provenzano e la confederazione delle loro bande criminali?



A questo interrogativo ne è strettamente connesso un secondo: davvero le due stragi non ebbero come partner altre organizzazioni criminali interessate alla marginalizzazione del nostro paese negli equilibri in corso di ridefinizione in Medio Oriente e su scala internazionale?

Seppure in maniera meno precisa, cioè più velata, anzi laterale, i termini di questa analisi furono al centro di diversi interventi di esponenti del governo guidato da Giuliano Amato. Direi, a cominciare dello stesso premier socialista.



E’ — e fu — immediatamente di grande evidenza un particolare. Cosa nostra non aveva mai compiuto delitti usando una tonnellata di esplosivo. Il giudice Falcone poteva essere ucciso a Roma, e questo fu il tentativo iniziale di Cosa nostra. Qui passava gran parte del suo tempo al ministero della Giustizia dove era stato chiamato dal ministro Martelli a dirigere gli affari penali. Perché questo iniziale disegno venne lasciato cadere, e da chi venne la sollecitazione in questo senso?

In secondo luogo la mafia non aveva mai, prima di Capaci e di Via D’Amelio, fatto ricorso  ad azioni delittuose simili a quelle del terrorismo palestinese e di quello latino-americano, più precisamente colombiano. Aveva sempre preferito una propria misura di sobrietà, colpendo con efficacia, con efferatezza (come nel coinvolgere negli stermini anche dei bambini), ma evitando amplificazioni e ridondanze demolitorie.



A Capaci, invece, furono divelte centinaia di metri dell’autostrada che da Palermo portavano all’aeroporto. Non solo Amato, ma anche i suoi collaboratori alla testa degli apparati di prevenzione e di repressione, come il capo della polizia Vincenzo Parisi, il responsabile della Dia Gianni De Gennaro e il vice direttore (in realtà, il vero capo) del Dap (Direzione affari penitenziari) Francesco Di Maggio, il procuratore della Repubblica alla testa della Direzione nazionale antimafia Pier Luigi Vigna, e lo stesso presidente del Senato Giovanni Spadolini non esclusero che sugli obiettivi di Cosa nostra si potessero essere incastrati preoccupazioni e messaggi (e anche una “manina”) di altre organizzazioni criminali internazionali, a partire dalla ex Jugoslavia.

La delegittimazione del governo italiano faceva parte di una strategia volta a dimostrarne l’inaffidabilità e la debolezza nel contrastare il terrorismo in una partita dove la comunità europea non contava — e non conta — niente e il gioco è condotto da Mosca e da Washington?

Le stragi del 1992 (di Capaci e di Via D’Amelio, al pari di quelle che ebbero come vittime l’europarlamentare andreottiano Salvo Lima e il suo compare Ignazio Salvo) come quelle del 1993 a carico di beni non riproducibili (come chiese, musei e basiliche a Roma, Firenze e Milano), furono un successo per la risonanza mediatica avuta. Poco, anzi nulla, convenienti risultarono per gli interessi del gruppo dirigente di Cosa nostra. Infatti l’esito della campagna stragista fu un incremento fino ad allora mai visto per il numero delle forze mobilitate e per l’efficacia dei risultati  conseguiti nel contrastare la mafia.

Col decreto varato il 7 agosto 1992 dal ministro della Giustizia Claudio Martelli e degli Interni Vincenzo Scotti venne esteso ai detenuti di Cosa nostra più pericolosi un istituto dell’ordinamento penitenziario come il 41bis.

Il 20 luglio 1992, proprio per far capire ai boss che lo stato non era stato piegato, il governo Amato, su iniziativa dei ministri Martelli e Scotti, emise le misure del 41bis a carico di 325 detenuti con scadenza prolungata fino al 20 luglio 1993.

E’ vero che per la prima volta lo Stato con questo decreto (osteggiato da mezzo parlamento, bisogna dirlo) incrinava la catena di comando tra le “famiglie” (e all’interno di ognuna di esse) e il “mandamento” che si vide improvvisamente privato della possibilità di ricevere ordini. Ma le condizioni detentive di centinaia di mafiosi subirono un aggravamento tale da indurre a denunciarle come delle vere e proprie torture. E non è un caso che Riina e Provenzano indicarono nel famoso “papello” il loro smantellamento come uno dei punti qualificanti della trattativa Stato-mafia. 

Il 6 agosto 1992 viene istituita la Commissione parlamentare antimafia, e il 25 settembre i presidenti delle Camere designano alla sua presidenza Luciano Violante. Contemporaneamente Amato aveva preso un’altra iniziativa che ricordava quella dei Savoia dopo l’unificazione: la militarizzazione della Sicilia. Nell’isola vennero inviati massicciamente reparti dell’esercito a occupare il territorio progressivamente requisito dalle bande mafiose.

Durissimo per la rendita mafiosa fu la decisione presa del ministro Francesco Merloni. Furono prima bloccati (e sospesi) e successivamente riformati i contratti di appalto pubblici. A guadagnarci fu lo Stato. A perderci anche gli imprenditori edili legati alla mafia. Credo si possa dire che per la prima volta la mafia non abbia tratto vantaggi dalle azioni criminali che investirono Lima, Falcone, Borsellino e Salvo nell’arco temporale 12 marzo-17 settembre 1992. I numerosi delitti, col massacro delle famiglie e delle scorte, non ebbero una redditività, cioè non corrisposero al principio al quale Riina e compagni non hanno mai voluto rinunciare. Scaturì da questa débâcle dell’azione stragista il sospetto, avanzato dalla Dia e dallo stesso capo della polizia, secondo cui Cosa nostra era stata sospinta in una logica di tipo terroristico (come quella del treno 904) grazie al coinvolgimento di più organizzazioni criminali.

Di qui un’ipotesi, che personalmente condivido. Riina potrebbe avere avuto come istigatori e patrocinatori forze, gruppi criminali, personaggi anche estranei alla mafia e potrebbe aver finito per sacrificare o mettere in ombra gli interessi di quest’ultima.

Ma vale soprattutto il richiamo di una circostanza per nulla secondaria. Mi riferisco al consolidarsi, in una persona molto attenta alle interferenze e ai collegamenti internazionali della criminalità, come il capo della polizia Vincenzo Parisi, di ipotesi di possibili tessiture di intese, se non di alleanze, con altri poteri criminali, gruppi politici e imprenditoriali.