“Ciò che conta nella nostra vita dovrebbe contare anche in filosofia”; a tale convinzione, espressa in Mente, Corpo, Mondo (2003), Hilary Putnam si è sempre mantenuto fedele, cercando nel corso della sua riflessione di definire il ruolo specifico che la filosofia riveste, anche nel suo rapporto con la scienza e con altri ambiti del sapere. L’apprezzamento per la concezione pragmatista si è unito nello stesso cammino personale biografico di Putnam, scomparso lo scorso anno, con la riscoperta della fede ebraica in età adulta e con il suo riavvicinamento alle pratiche religiose ad essa collegate. Egli afferma che per lungo tempo in precedenza aveva tenuto “separate due parti di sé”, senza riuscire a conciliarle: dal punto di vista filosofico era un “ateo integrale”, da quello religioso un “credente” (Rinnovare la filosofia, 1998).
Lo studio di pensatori ebraici, quali Rosenzweig, Buber e Levinas l’ha poi convinto che la conciliazione delle due parti di sé poteva, almeno parzialmente, avvenire grazie ad un nuovo modo di intendere la filosofia, grazie cioè ad una filosofia che Putnam, riferendosi a Rosenzweig, chiama “esperiente”; essa consiste in un “modo di vita” che tende a trasformare l’esistenza stessa (Filosofia ebraica, una guida di vita, 2011).
Sulla scorta del pensiero di Buber, ma anche in parte di Wittgenstein, il pensatore americano afferma che per la persona religiosa non è pertinente “teorizzare su Dio”; l’uomo non riceve un contenuto, ma una presenza, che comunica, in maniera però non tematizzabile, la certezza di un senso, il quale può essere “accolto” e “attuato”, ma non può diventare oggetto di un sapere universalmente valido. L’apprezzamento del pensatore americano per gli autori citati deriva anche dal fatto che viene da loro evitato qualsiasi approccio metafisico alla questione di Dio, e allo stesso tempo riconosciuta specifica dignità conoscitiva all’esperienza religiosa, secondo quanto anche Wittgenstein sosteneva. Putnam sottolinea quindi, riprendendo soprattutto Rosenzweig, come la concezione di filosofia ora delineata conduca ad un “pensiero che parla”, che implica cioè “parlare a qualcuno e pensare per qualcuno”, per un interlocutore preciso ed in un tempo ben determinato, secondo un dinamismo dialogico imprevedibile ai parlanti stessi.
Esiste una sorta di convergenza tra quanto Putnam sostiene negli ultimi scritti a riguardo del realismo e della verità e la proposta di questa nuova via filosofica; egli, abbandonata la posizione secondo cui la nostra conoscenza è necessariamente condizionata dai nostri schemi mentali e linguistici, ha appunto mostrato come attraverso questa si possa attuare una responsabile apertura alla realtà, che ben si concilia con la dimensione relazionale del pensiero, sostenuta anche da Buber, cui Putnam fa spesso riferimento. In tal senso potremmo dire che pensare appunto è anche “rispondere” a qualcuno, come sì è già avuto modo di rilevare nel contributo precedente.
D’altra parte rimane convinzione del filosofo americano che la riflessione metafisica, nelle varie forme in cui si è presentata, si basi necessariamente su una sorta di “impersonalità” del pensiero; egli forse non tiene conto del fatto che almeno in alcuni casi tale riflessione si è sviluppata proprio all’interno di un rapporto io-Tu, basti pensare al Proslogion di sant’Anselmo o all’esperienza di “conoscenza amorosa” da cui è scaturito molto del pensiero cristiano, o ancora ad alcune espressioni contemporanee di metafisica personalistica.
Putnam sostiene tale convinzione anche per l’influenza di Dewey, il quale, comunque, pensa che le tematiche religiose, in quanto legate a quelle concernenti valori, siano passibili di discussione razionale intersoggettiva e debbano sottostare in tal senso a parametri di oggettività. Mentre apprezza quest’ultimo aspetto, Putnam in Filosofia ebraica, una guida di vita, segue solo in parte la convinzione di Dewey che Dio non sia altro che la “proiezione” più alta degli ideali umani e ne afferma invece la realtà personale. Anch’egli nega, come il pensatore pragmatista, la possibilità di un intervento di Dio nella storia, ma diversamente da questi mantiene l’apertura verso incontri io-tu che possano aprire alla trascendenza.
Nell’opera appena citata Putnam afferma di non credere in un Dio inteso come un soccorritore sovrannaturale che interviene nel corso della storia o nel corso delle nostre vite a salvarci dai disastri. “Non credo nei ‘miracoli’ in questo senso. Tuttavia la spiritualità — che nel mio caso, significa pregare, meditare, pormi in contatto con gli ideali, i riti, i testi antichi che il popolo ebraico ha tramandato per più di due millenni, e sottoporsi alle esperienze che si accompagnano a tutto ciò — è miracolosa e naturale allo stesso tempo, proprio come miracoloso e naturale è il contatto con un altro in quella che Buber chiama la relazione ‘io-tu’, e come può esserlo il contatto con la bellezza naturale e con l’arte. Dio non è però un ideale dello stesso tipo dell’uguaglianza e della giustizia. Il credente tradizionale … immagina Dio come una persona sommamente saggia, gentile, giusta”. Tale modo di intendere Dio è “in fondo di gran lunga più prezioso di qualsiasi concetto metafisico di un Dio impersonale, per non dire di un Dio che è ‘totalmente altro'” .
Da queste ultime righe esce forse un’immagine meno conosciuta di Putnam, ma che mostra come il suo sia un esempio realizzato di “filosofia esperiente”, cresciuta nel dialogo concreto e ideale, e quindi in “compagnia” dei più diversi autori, sempre pronta a lasciarsi nuovamente interrogare da ciò che la realtà nelle sue espressioni più varie suggerisce, fino ad aprirsi alla possibilità della trascendenza e dell’incontro io-Tu.
(2 – fine)