Quando si discute del Marchese De Sade (1740-1814) prevale il registro farsesco. I detrattori lo dipingono come un satiro sconclusionato; gli estimatori ne fanno l’eroe ribelle che tutti precede, anche Wilde e Schifano. Mai come in questo caso, la verità non sta nel mezzo, ma da tutt’altra parte. E i motivi di interesse sarebbero molti, a cominciare dal dato storico: l’immarcescibile libertino è attenzionato dagli organi di polizia di quattro diversi regimi politici nella stessa Francia. Nella seconda metà del diciottesimo secolo, è guardato con fastidio dagli ultimi eredi del notabilato monarchico aristocratico (cui pure De Sade per lignaggio apparterrebbe). Pochi anni dopo, per i rivoluzionari del 1789, cui si era unito invocando una palingenesi dei costumi, diventa la dissoluta negazione di ogni morale rivoluzionaria. Nel periodo napoleonico, la fama di ingovernabile e irascibile fa il paio con debiti continui, per cui all’epoca vigono ancora le riscossioni coattive e la prigionia. Fa appena in tempo a vedere le prime luci della Restaurazione quando muore malato e sfinito, ma non vinto (e men che meno bene accetto dalle autorità civili). 



Molto si è detto sulla sostanza letteraria di De Sade. Dal punto di vista estetico la sua opera è faticosa: compiaciutamente cruda nelle parti narrative, è sentenziosa fino all’eccesso quando il Marchese si rifugia in una filosofia morale nichilista e consapevolmente provocatoria. La cosa che stupisce, piuttosto, è che in De Sade vi sia poco spazio per una vera maturazione stilistica. I due generi dove l’autore sembra più ferrato sono proprio quelli che pratica e abbandona con quasi fastidiosa discontinuità: la poesia giovanile di imitazione trobadorica e le occasionali sperimentazioni del teatro da camera. Nei lunghi periodi di carcerazione, era come se il suo genio arretrasse fino alla claustrofobia: consumatore onnivoro di letture colte e prosatore a suo agio solo in un cupo pessimismo qua e là squarciato dall’indole libertina e dalla esaltazione del desiderio carnale, perennemente insoddisfatto tra una prigionia e l’altra. Tanto studiatamente compulsivo il modo feroce di raccontare l’erotismo, quanto poco chiaro ma sostanzialmente moderato e, peggio, indifferente il suo posizionamento politico. 



La sua condotta da deputato rivoluzionario è priva del radicale mordente giacobino, che già anela a tradursi nel baluardo della “morale” e della “salute pubblica”. L’unico tema sul quale De Sade è pronto ad assumere posizioni scomode e minoritarie è la religione. Le assemblee francesi di fine Settecento ospitano una spesso sottovalutata ricchezza di posizioni: ci sono gli atei, i panteisti, i cattolici delusi dall’alto clero, minoranze protestanti persino più intransigenti dei movimenti tedeschi della Riforma. De Sade non aderisce, né si dedica, ad alcunché: lancia crociate contro l’indottrinamento, il servilismo e la mancanza di spirito critico di tutti i culti.



È in definitiva forse questo il vulnus a cui il nobile decaduto impicca la sua storia e la sua opera. Nipote di un abate libertino, in una famiglia dove non mancano parentele con badesse e teologi, De Sade ha finito per nutrirsi di un illusorio scetticismo. Nemmeno il godimento fisico rientra nella conoscenza sensoriale, perché quel godimento è continuamente eccitato da fantasie al confine con la nevrosi. De Sade nella vita fallisce due appuntamenti, che distruggono per sempre l’amore per i figli, il valore in battaglia, la penna veloce e la cultura originale. Incontra il volto peggiore della gerarchia dei suoi tempi e sceglie di fronteggiarlo con l’ostentazione comportamentale e non con la riflessione su Dio e sull’uomo. Testimone paradossalmente cieco di questa caducità incontra il desiderio prima dell’amore. Ne viene fuori una passione erratica che impiega settantaquattro anni per spegnerlo del tutto.