“Scopo dell’impresa, infatti, non è semplicemente la produzione del profitto, bensì l’esistenza stessa dell’impresa come comunità di uomini che, in diverso modo, perseguono il soddisfacimento dei loro fondamentali bisogni e costituiscono un particolare gruppo al servizio dell’intera società” (Centesimus annus, n.35). 



Non sono parole pronunciate da Francesco nel suo incontro col mondo del lavoro a Genova. Sono parole scritte da chi è giustamente annoverato tra i protagonisti che provocarono la caduta del muro di Berlino. Si tratta di Giovanni Paolo II e di una sua fondamentale enciclica sociale. Il cui contenuto viene semplicemente attualizzato da papa Francesco. È la modesta opinione di chi scrive che, lo dico a mo’ di premessa, intende sottrarsi alla dialettica molto mediatica per cui si vuole contrapporre l’attuale successore di Pietro ai predecessori. Per chi crede il papa è il papa, nonostante i segreti a cui i più non avrebbero accesso e che solo alcuni “illuminati” conoscerebbero circa le pressioni per far dimettere Benedetto XVI ed eleggere Francesco. Se poi per sostenere questa tesi bisogna pure affidarsi all’interpretazione di simboli, segni e gesti adottati dall’emerito piuttosto che dal regnante, entriamo nell’ambito dell’esoterismo e della gnosi più che della fede cristiana. 



Poiché questo tipo di discorso non mi interessa affatto, rimanendo nell’ambito della ragione il discorso pronunciato da papa Bergoglio a Genova mi sembra in grande continuità con il magistero sociale cattolico. Nell’esaltare la figura dell’imprenditore e distinguendola da quella dello speculatore, Francesco non ha mai parlato contro il profitto, bensì ha ribadito quanto ha sempre sostenuto la Chiesa: “il vero imprenditore conosce i suoi lavoratori, perché lavora accanto a loro, lavora con loro. Non dimentichiamo che l’imprenditore dev’essere prima di tutto un lavoratore. Se lui non ha questa esperienza della dignità del lavoro, non sarà un buon imprenditore. Condivide le fatiche dei lavoratori e condivide le gioie del lavoro, di risolvere insieme problemi, di creare qualcosa insieme. Se e quando deve licenziare qualcuno è sempre una scelta dolorosa e non lo farebbe, se potesse”. 



Lo speculatore, al contrario, “non ama la sua azienda, non ama i lavoratori, ma vede azienda e lavoratori solo come mezzi per fare profitto. Usa, usa azienda e lavoratori”. 

Non solo Francesco ha raccontato in estrema sintesi la storia positiva di tanti piccoli imprenditori che negli anni della crisi hanno preferito lavorare gratis (o addirittura non pagare le tasse, come hanno riconosciuto alcune recenti vicende giudiziarie concluse a favore dei capi azienda) piuttosto che lasciare a casa i propri collaboratori. Papa Bergoglio ha ripreso l’idea “dell’impresa come comunità di uomini” che si è sempre contrapposta alla radice a quella materialista della lotta di classe. E che oggi si contrappone all’idea di un sistema produttivo senza lavoratori. 

Infatti è su questo concetto che Francesco ha sviluppato un ulteriore importante passaggio del suo dialogo all’Ilva di Genova: “Bisogna allora guardare senza paura, ma con responsabilità, alle trasformazioni tecnologiche dell’economia e della vita e non rassegnarsi all’ideologia che sta prendendo piede ovunque, che immagina un mondo dove solo metà o forse due terzi dei lavoratori lavoreranno, e gli altri saranno mantenuti da un assegno sociale. Dev’essere chiaro che l’obiettivo vero da raggiungere non è il ‘reddito per tutti’, ma il ‘lavoro per tutti’! Perché senza lavoro, senza lavoro per tutti non ci sarà dignità per tutti”. 

In un tempo in cui Bill Gates immagina la tassa sui robot che sostituiscono i dipendenti, e i cosiddetti populisti avanzano proposte compensative sul “reddito di cittadinanza”, papa Bergoglio ribadisce una convinzione molto semplice: “Il lavoro è una necessità, è parte del senso della vita su questa terra, via di maturazione, di sviluppo umano e di realizzazione personale” (Laudato si’, n. 128). Ogni altro tentativo, dall’assegno in denaro al “lavoro di cittadinanza” che lo Stato garantirebbe per impiegare il tempo di chi rimane disoccupato, si riduce ad una forma di “assistenzialismo paternalista” che finisce per “anestetizzare o di addomesticare”, come ebbe a dire lo stesso Francesco nel primo discorso ai movimenti popolari. 

Per questo il Pontefice, contrariamente a quanto maliziosamente diffuso, a Genova ha esaltato gli imprenditori addirittura citando un grande liberale italiano come Luigi Einaudi: “Non c’è buona economia senza buoni imprenditori, senza la vostra capacità di creare, creare lavoro, creare prodotti”. E nonostante ciò — e qui si verifica un altro rilevante passaggio del discorso all’Ilva — lo Stato mette i bastoni fra le ruote, partendo da una concezione antropologica negativa: “paradossalmente, qualche volte il sistema politico sembra incoraggiare chi specula sul lavoro e non chi investe e crede nel lavoro. Perché? Perché crea burocrazia e controlli partendo dall’ipotesi che gli attori dell’economia siano speculatori, e così chi non lo è rimane svantaggiato e chi lo è riesce a trovare i mezzi per eludere i controlli e raggiungere i suoi obiettivi. Si sa che regolamenti e leggi pensati per i disonesti finiscono per penalizzare gli onesti”. 

Si prenda ad esempio la vicenda dei voucher che, invece di essere salvaguardati come strumento regolatorio per le mansioni accessorie, vengono aboliti per ridurne gli abusi, finendo così per favorire solo il lavoro nero. Tra lo statalismo che soffoca e la società degli speculatori che usa azienda e lavoratori come mezzi solo per fare profitto, Francesco torna ad esplicitare il contenuto realista della dottrina sociale della Chiesa, ben enunciato a suo tempo da papa Wojtyla: esiste “una società del lavoro libero, dell’impresa e della partecipazione. Essa non si oppone al mercato, ma chiede che sia opportunamente controllato dalle forze sociali e dallo Stato, in modo da garantire la soddisfazione delle esigenze fondamentali di tutta la società” (C.a., n. 35). Perché il mercato non è un mito, governato da forze invisibili, ma è fatto di azioni figlie sempre di “una scelta morale e culturale” (n. 36). Una scelta compiuta da uomini, forgiati da una certa educazione piuttosto che da un’altra. 

È in questo spazio che la Chiesa si inserisce, al pari di ogni altra forza sociale che può aspirare a correggere opportunamente le storture del mercato e della società in generale. Francesco continua a ripetere solo questo concetto, come quando agli imprenditori che hanno fatto la scelta di condividere i profitti con i lavoratori ha detto: “Nell’immettere dentro l’economia il germe buono della comunione, avete iniziato un profondo cambiamento nel modo di vedere e vivere l’impresa. L’impresa non solo può non distruggere la comunione tra le persone, ma può edificarla, può promuoverla” (Discorso ai partecipanti all’incontro “Economia di comunione”, 4 febbraio 2017). 

Chi compie precise scelte morali e culturali diventa “seme, sale e lievito di un’altra economia”, attraverso il metodo della testimonianza. Senza imporre niente a nessuno, ma proponendo. E rispettando un altro fondamentale criterio indicato dalla Chiesa e ben espresso nella Caritas in Veritate di Benedetto XVI: “Solo se libero, lo sviluppo può essere integralmente umano; solo in un regime di libertà responsabile esso può crescere in maniera adeguata” (n. 17).