I narcos lo vogliono morto. Un milione di dollari: questa la taglia che pende sulla testa del piccolo e tenace sacerdote messicano che da alcuni anni dedica la vita agli indocumentados, i migranti che dal pozzo senza fondo del Centroamerica tentano di raggiungere gli Stati Uniti. 

“È stata l’esperienza più forte della mia vita. Dio me li ha messi sulla strada. Quando uno inizia a condividere le loro storie non può più tornare la persona di prima” racconta con voce calma e decisa padre Alejandro Solalinde, che ho la fortuna di conoscere in un’assolata domenica pomeriggio al Pime. 



Al centro del petto una croce di legno, disegnata da un migrante, i cui bracci si sporgono leggermente in avanti. “È la croce che abbraccia, Cristo che fa il primo passo” spiega il “missionario itinerante del regno di Dio”, come ama definirsi. Sorride al centro del palco e la sua piccola figura emana un’aura di pace e certezza, di forza invincibile. “Io non ho paura perché sono con Gesù” ripete con gli occhi raggianti di chi, come scrive Flannery O’Connor in La schiena di Parker, porta impresso il volto di Cristo tatuato nella carne e nel corpo. 



E continua a raccontare, davanti alla folla in silenzio, di come l’incontro con i migranti abbia trasformato la sua vita di prete “borghese” portandolo a condividere — tra le feroci vicende del Messico — le vite degli ultimi. Fino a fondare nel 2007 a Ixtepec, nello stato messicano di Oaxaca, “Hermanos en el Camino”, centro che accoglie lungo il cammino migranti provenienti in larga parte da Guatemala, Honduras ed El Salvador, spesso in fuga dalla violenza delle maras, le gang criminali che hanno insanguinato la storia dei piccoli stati centroamericani. 

Anche nel vicino Messico, che offre al viaggiatore il sogno tropicale di bianche spiagge con templi maya a capofitto sul mare, faraonici resort, incredibili avventure di snorkeling tra le tartarughe marine di Akumal, Chichen Itza, l’azzurro trasparente dei cenotes sotterranei e per finire overdose di tequila e mezcal, il crimine si espande come un cancro che ogni giorno miete vittime, in un caos che ha i contorni di una vera e propria guerra civile. 



Certo, occorre fare distinzioni tra gli stati più turistici dello Yucatan e del Quintana Roo e quelli più a nord, funestati dalle guerre del narcotraffico, ma l’aria che si respira è quella di un paese in continuo allarme, in cui le vicende di morte e crudeltà si nascondono dietro una patina sottile di silenzi, complicità e connivenze. Posti di blocco all’entrata delle città. E militari sui pickup, con le sirene lampeggianti che illuminano la buia e asfissiante notte tropicale.

Estate 2011, ore 19, Playa del Carmen. Una sorta di mirabile Rimini messicana, con un mare turchese in cui già si respira la vicinanza coi Caraibi. Con il mio compagno di viaggio sorseggiamo una cerveza con lime in un bar della zona, approfittando dei tavoli da biliardo a disposizione. Un ragazzo al tavolo conta mucchi di soldi. Li divide. Poi si alza, noncurante di noi due, e inizia ad armeggiare sotto i tavoli da biliardo da cui estrae sacchetti di bianchissima polvere fina. Quattro. Cinque. Sei. Ed inizia un viavai di persone, scambi e vendita al dettaglio. Il ragazzo guarda alla finestra. Fuma. L’happy hour è iniziato, ma forse ora è meglio andare.

Gli indocumentados non hanno patria, non esistono per nessuno: sono facile preda dei narcos che si arricchiscono sulla loro pelle grazie a rapimenti, schiavismo, traffici d’organi e prostituzione. La “Bestia”, così la chiamano, è il treno merci su cui molti viaggiano, aggrappati al tetto o tra i convogli per tentare di raggiungere il confine. Padre Solalinde ha sfidato il cartello dei Los Zetas, denunciando i soprusi dei narcotrafficanti collusi con la politica, le autorità e la polizia: “il problema più grave in Messico è la scomparsa forzata. I Los Zetas hanno inventato un percorso di sterminio per cui ogni anno in Messico le persone scompaiono nel nulla. È un olocausto, uno sterminio di persone sulla cui pelle hanno fatto soldi. Ovunque si scavi nella repubblica messicana ci sono fosse comuni con decine e decine di corpi, risalenti ad anni precedenti. Ora i Los Zetas hanno imparato a far scomparire i corpi senza lasciare neanche minima traccia di dna”.

I narcos mi vogliono morto, scritto a quattro mani con la giornalista Lucia Capuzzi, getta luce sulla voragine di crudeltà che in Messico inghiotte le storie degli ultimi e degli invisibili, che avvelena il cuore di un paese ferito. Sono storie di esilio, di privazioni, di violenze che anche le parole faticano a raccontare. Ma è lì, in quell’umanità ferita, che padre Alejandro ha trovato la strada, la forza per continuare a camminare. Scherza su Trump e sui muri, dicendo che dall’altra parte, sul ring, c’è Solalinde, lì dove Dio lo ha voluto. E riconosce, in questi tempi così inquieti, la possibilità di una speranza concreta per un nuovo presente, più “umano”:

“I migranti sono un segno dei tempi. Sono vittime del neoliberismo selvaggio che ha divorato il loro paese d’origine e li ha costretti a lasciarlo. In questo senso, sono testimoni di un mondo in disfacimento, ne portano le ferite nella loro carne. Al contempo, però, i migranti sono i pionieri del futuro. Anticipano, con la loro ostinata resistenza, la possibilità di una nuova società. Perché? Perché hanno il coraggio di rischiare. […] Il loro viaggiare, invincibile e dolente, rammenta a noi, ormai accomodati e aggrappati alle nostre certezze, che siamo tutti pellegrini. Tutti siamo migranti. […] Possiamo e dobbiamo avere il coraggio di rischiare un po’ del nostro benessere per restare umani. Non più noi o voi, ma noi e voi, io e l’altro. Insieme. O ci salviamo tutti o tutti verremo travolti. È una scommessa forte. Ma ne sono sempre più convinto: ne vale la pena”. (pp. 159-161)