Il mondo postmoderno usa indiscriminatamente e ad hoc i due principi fondamentali della politica secondo la profonda teoria di Carl Schmitt: la terra e il mare. Non esiste scenario che confermi questa osservazione come le migrazioni di massa, che stanno rendendo le nostre coste una succursale del nuovo trend postmoderno, schema terra & mare come motore (sempre) mobile: di ciò tratta acutamente il saggio della politologa americana Kelly M. Greenhill, Armi di migrazione di massa (Leg, Gorizia 2017). 



Come Gianandrea Gaiani mette in luce nella sua prefazione, l’attualità è il volano di questo testo, tanto che potremmo anche chiosare con la formula dello storico Paul Sweezy: “Il presente come storia”. Qui il presente rimanda alla storia e, insieme, costituisce la cifra interpretativa della medesima.



Gli Stati liberaldemocratici vivono una crisi strutturale e, durante le migrazioni di massa costruite ad arte per condizionare e perfino cambiare radicalmente le politiche delle democrazie e non solo di esse, non riescono a reggere all’assedio di uomini, donne, bambini, corpi che creano una biopolitica non controllabile. Le analisi della studiosa americana mettono in luce l’erosione strutturale di ciò che viene definito “conventional wisdom”, una saggezza convenzionale e prona alla gestione burocratica dell’esistente. Si tratta di un lessico molto accademico per indicare, di fatto, il politically correct. E si tratta anche di un modo elegante per determinare la cifra di quello specifico procedimento logico definibile come “bias”, pre-giudizio, tale per cui certi tratti della realtà non possono neanche essere presi in considerazione, in primo luogo la migrazione di massa come arma non convenzionale (postmoderna). 



Questo dinamismo coercitivo e di pressione-manipolazione da parte di Stati come la Libia di Gheddafi — assumendo comunque, e in positivo, la sua figura a fare da garante istituzionale — ma anche di Cuba, dell’Etiopia, dell’Albania, Haiti, e la lista è davvero corposa, diventa un vero e proprio “pattern”, un paradigma di costruzione di un linguaggio e di una prassi politica, in grado di far implodere la classica forma della politica. La forma politica moderna dettata dalla misura leviatanica degli Stati, anche se con l’etichetta di “liberaldemocratici”, una modalità che prevedeva il controllo dei territori, delle coste e una rete protettiva di negoziazioni in grado di salvaguardare la stabilità della policy interna. 

Di fronte all’irrompere di masse, usate come arma impropria e di rara efficacia, l’Europa viene non ridimensionata, ma seriamente “dimensionata” per ciò che è, un arcipelago del nulla senza né anima né progetto. L’Italia, poi, sta per essere ridisegnata dall’urto, ormai considerato dato “ambientale”, dell’arma della migrazione di massa proveniente dalle coste africane, libiche in ispecie, e senza più la preziosa presenza di un partner tanto scomodo quanto necessario come Gheddafi. Il postmoderno politico, nella sua forma di arma impropria, ovvero migrazione di massa, sbaracca gli Stati, invade le nazioni e mette al centro lo stress sulle élites, sempre più simili a certe ombre di shakespeariana memoria.

Un testo come questo favorisce non poco la ripresa di una visione strategica della politica, rimettendo in piedi il cadavere dell’analisi storica e mettendo, di contro, tra parentesi, la declinazione troppo enfaticamente legata alla geografia. Non è la vicinanza territoriale in sé a creare pericoli particolari, ma la strategia di pressione-manipolazione che ci sta dietro. Ecco perché quanto sta accadendo al nostro Paese non riguarda soltanto le coste e i mari, ma un’idea di nazione, di visione storica, strategica e quindi politica.

Fallimenti e successi, in questo tipo di operazioni migratorie, possono essere totali o relativi, e l’autrice esamina anche questi aspetti, ma quel che colpisce è la tripartizione degli operatori “politici” che muovono questa entropia calcolata e programmata: i “Generators”; gli “Agents provocateurs” e, infine, gli “Opportunists”. Ecco i nuovi soggetti politici postmoderni che sfuggono perfino alle rigorose maglie della teoria dei giochi. E si tratta di soggettività che possono fare davvero molto male agli Stati e alle “classi dirigenti” dei Paesi presi di mira, per così dire, dall’arma impropria della migrazione di massa.

Un testo così chiede al presente di farsi cifra storica di una nuova interpretazione della realtà e della politica, ma, al contempo, stimola l’analisi e l’intelligence strategica a rendere quanto fotografato con le griglie tecniche linguaggio e categorie. Perché l’incapacità di cambiare pelle e trovare risposte da parte della politica non è altro che la cartina di tornasole del suo tramonto. Non a caso pesantemente incidente in Occidente, in quello spazio di terra e mare, cioè, che Heidegger definiva come Aben-Land, Terra-del-Tramonto.