“Avrei una notizia da dare: questa storia della post-verità è una bufala”. Così Alessandro Baricco in un recente articolo su Repubblica nel quale tornava in modo perentorio sul tema, molto dibattuto in questi ultimi mesi, del rapporto tra il mondo dei media e la verità. L’articolo ha il merito di spostare la discussione dalle bufale alla verità, dalla sterile discussione sulle “fake news”, alla questione del nostro rapporto con la verità: “Per quel che ne capisco io, il termine di post-verità registra, un po’ in ritardo, e sintetizza, in modo piuttosto efficace, alcune cose che abbiamo scoperto recentemente sul nostro rapporto con la verità”.
Baricco indica alcune caratteristiche di questo mutato rapporto: oggi sembra che sia “più vera una definizione imprecisa ma comprensibile che una precisa ma difficile da capire”. In particolare si sarebbe spostato l’accento dai processi di verifica delle informazioni alla loro “narrazione”, influenzando quindi il significato della parola verità: “Quel che abbiamo capito è che tutto ciò che è reale — potremmo dire vero — è composto di fatti e narrazione, che sono inscindibili, non esistono praticamente gli uni senza l’altra. Per questo, da un po’, la verità ci sembra scivolare nelle mani di quelli che la sanno raccontare, non di quelli che la sanno e basta”.
Il termine “post-verità” descrive quindi un rapporto con la verità in cui i fatti contano meno del “design” con cui vengono confezionate le notizie: tale “packaging” sarebbe costruito per essere “funzionale alla sensazione” che si vuol suscitare (quasi le notizie siano un po’ come quei video di “un packaging” di telefonini che puntano tutto sulla sensazione — quella che si proverà al momento dell’acquisto — più che su una verifica effettiva del prodotto). Le cause di questa situazione sono individuate da Baricco, secondo la prospettiva marxista, nel rapporto produzione/consumo applicata anche nel campo della cultura: “Bene o male siamo stati abituati per secoli al fatto che una certa élite decidesse cos’era vero. […] La rivoluzione digitale (una cosa che non ha più di vent’anni) ha mescolato un po’ i ruoli, e ora di fatto una vera separazione tra chi dà le carte e chi le prende sta venendo a mancare. Tutti hanno il loro mazzo e giocano. Risultato: una sovrapproduzione di verità, quindi un’impennata dell’offerta, forse un calo della richiesta, sicuramente un crollo del valore. Per questo, da un po’, la verità sembra valere meno, una merce svalutata”.
La grande novità sarebbe dunque che, in clima di post-verità, sarebbe diminuito proprio l’interesse per la verità. Ci sarebbe più interesse per il consumo di notizie seducenti, emozionanti, capaci di dare la sensazione di rispondere in modo immediato e irriflesso alla stessa sete di verità che può invece impegnare gli uomini in ricerche attente, silenziose, lunghe, e spesso scomode.
Ma forse, allora, l’interesse che viene meno non è tanto quello per la verità, quanto quello per il processo del suo reperimento, per la fatica di avvicinarla, di metterla a fuoco, di ricercarla. Se le cose stanno così, poco è cambiato dalla notte dei tempi e due esempi letterari lo possono confermare.
Virgilio racconta nell’Eneide che Troia non fu “domata” né da “dieci anni di guerra”, né da “mille navi”, né tantomeno, dal valore di Achille o Diomede, ma dalle parole menzognere (“trucchi e lacrime forzate”) frutto dell'”astuzia dello spergiuro Sinone”. Spergiuro è la parola con cui Virgilio indica colui che, giurando di dire la verità, manipola i fatti con il solo scopo di condizionare le azioni del proprio interlocutore a suo vantaggio. È questo un esempio di retorica sofista — ossia di quell’uso del discorso nel quale la parola ha come fine il potere, non la conoscenza. Un discorso, quello con cui Sinone convince i Troiani a portare il cavallo dentro la città, che sembra ispirato alle più moderne tecniche di storytelling pubblicitario. Per chi ne avesse voglia ho una buona analisi retorica nel cassetto; per tutti gli altri, le conclusioni: una lunga captatio benevolentiae — in cui il greco fa leva su tutto ciò che poteva metterlo in sintonia con i suoi nemici fino a farseli amici — conquista in modo pieno la fiducia dei suoi interlocutori. L’effetto delle parole è potente al punto che nulla vale sul rapimento delle menti (“insensati” dirà Enea): neanche le parole autorevoli di Laocoonte (“non mi fido dei Greci neanche quando offrono doni”) e i fatti da lui stesso mostrati (la lancia scagliata contro il ventre del cavallo che svela l’inganno facendo risuonare le armi dei soldati all’interno). Una volta conquistata la fiducia dei propri interlocutori, il gioco è fatto: ogni manipolazione della verità può essere venduta come credibile. Sinone, a questo punto, può offrire ai Troiani una “narrazione” che li convincerà (valore perlocutorio del discorso) a introdurre, con le loro stesse mani, i nemici dentro la città. Somma tragedia, questa, anche secondo Aristotele: compiere il proprio male pensando di fare il proprio bene.
Perché i Troiani si sono fatti ingannare? Perché non hanno saputo vedere i segni evidenti della manipolazione dei fatti? Virgilio, in qualche modo, sembra mettere in guardia i lettori: ma quando vi fidate, cosa fate? A chi e perché date la vostra fiducia?
Tralasciando qui le motivazioni epiche dell’inganno (“tutto va come deve andare” dirà Pezzali per spiegare il “così prescrivevano i fati” di Enea), le ragioni psicologiche della debolezza dei troiani sono forse da ricercare nella natura seducente delle parole di Sinone: quando la mattina, i Troiani si svegliarono e videro il campo dei Greci deserto, si insinuò in loro la possibilità del realizzarsi di una verità tanto immaginata, desiderata, sperata. Quella per cui, dopo dieci lunghi anni di assedio, la guerra potesse essere davvero finita: “Noi li pensavamo partiti, col vento in rotta su Micene. / Allora tutta la Troade scioglie il lunghissimo lutto. / Si spalancan le porte; è bello andare e vedere il campo dei Dori: deserti gli insediamenti, abbandonata la spiaggia”.
Spesso l’uomo prende per verità ciò che seduce le proprie aspettative, come ci ricorda Giuseppe Pontiggia: “Sedurre significa incarnare, agli occhi di un altro, la sua attesa. E questo, nella seduzione intenzionale, implica fatalmente un travestimento”.
La questione a questo punto si sposta in modo interessante dall’ingegno di chi manipola i fatti alle aspettative di chi riceve le informazioni manipolate. Esiste una possibilità di non lasciarsi suggestionare dalle proprie aspettative, dalle proprie “passioni”?
È forse solo considerando l’orizzonte di attese che costituisce la trama anche psicologica delle nostre valutazioni e quindi delle nostre scelte, che si può affrontare il discorso della post-verità senza cedere ai luoghi comuni. Manzoni, nell’Ottocento, sembra aver adottato questa particolare angolatura, quando si accinge a scrivere una digressione del suo capolavoro I promessi sposi, poi pubblicata come scritto autonomo, La storia della colonna infame. In quel testo, frutto di un’accurata ricerca storica, Manzoni decostruisce non solo una “bufala” storica, ma anche la sua ricezione post-veritiera — ossia l’attitudine di tutti coloro che hanno preso per vera, per più di un secolo, una menzogna, secondo “quell’usanza antica, e non mai abbastanza screditata, di ripetere senza esaminare, e, se ci si lascia passar quest’espressione, di mescere al pubblico il suo vino medesimo, e alle volte quello che gli ha già dato alla testa”.
Così, nell’individuare i reali motivi che portarono alcuni giudici del seicento a incriminare ingiustamente due innocenti, Manzoni mette in discussione le conclusioni cui giunse, più di un secolo dopo il fatto, Pietro Verri, nel suo famoso Osservazioni sulla tortura, quando, tornando su quell’episodio per dimostrare la barbarità della legge sulla tortura, finì per interpretare in modo parziale una parziale ricostruzione della verità processuale.
Questi i dati: alcuni giudici del Seicento, durante la famosa epidemia di peste che flagellò anche Milano, condannarono ingiustamente due innocenti, attraverso l’estorsione di una confessione falsa, per mezzo della tortura. Riesaminati i fatti e stabilita l’innocenza dei due condannati, Pietro Verri si domandò nel suo famoso saggio del 1760 le cause di quel clamoroso errore giudiziario. E le individuò, grazie la luce della ragione illuminista, in due elementi connaturati all’epoca in cui i fatti si svolsero: “l’ignoranza de’ tempi e la barbarie della giurisprudenza”. Così il processo agli “untori” servì anche al Verri per stabilire, con la precisione razionalistica di un illuminista di metà settecento, una relazione di necessità tra questi due fattori e l’esito del processo: le ingiustizie sono il frutto di leggi prodotte in una società non “illuminata” (sia dal punto di vista scientifico sia dal punto di vista giuridico).
Manzoni, che condanna a sua volta la tortura, mostra però come, perseguendo il suo nobile intento, Verri si sia formato “una nozione del fatto, non solo dimezzata, ma falsa”. Nella ricostruzione del processo Verri attribuisce la causa dell’ingiustizia ai soli due fattori menzionati, dimenticandone molti altri. Manzoni, invece, nella sua revisione degli atti del processo, dimostra che i giudici avessero a loro disposizione tutti gli elementi per riconoscere innocenti i due, indipendentemente dall’esistenza della tortura e dal condizionamento dovuto al ritenere nocive le unzioni. Verri “si ingannò” poiché riteneva il male frutto necessario delle storture della società, e scelse così di eludere una “verità che può parere sciocca per troppa evidenza”: infatti “non era un effetto necessario del credere all’efficacia dell’unzioni pestifere, il credere che Guglielmo Piazza e Giangiacomo Mora le avessero messe in opera; come dell’esser la tortura in vigore non era effetto necessario che fosse fatta soffrire a tutti gli accusati, nè che tutti quelli a cui si faceva soffrire, fossero sentenziati colpevoli”. Ma “non di rado le verità troppo evidenti, e che dovrebbero esser sottintese, sono in vece dimenticate; e dal non dimenticar questa dipende il giudicar rettamente quell’atroce giudizio”.
La ricostruzione del processo porta Manzoni ad affermare che “que’ giudici condannaron degl’innocenti, che essi, con la più ferma persuasione dell’efficacia dell’unzioni, e con una legislazione che ammetteva la tortura, potevano riconoscere innocenti; e che anzi, per trovarli colpevoli, per respingere il vero che ricompariva ogni momento, in mille forme, e da mille parti, con caratteri chiari allora com’ora, come sempre, dovettero fare continui sforzi d’ingegno, e ricorrere a espedienti, de’ quali non potevano ignorar l’ingiustizia”. Lo sforzo che fecero fu quello di fuggire la verità, non di ricercarla! Per il cristiano Manzoni il male non è mai necessario, è sempre arbitrario e frutto di “passioni perverse”. Così, seppur non voglia “togliere all’ignoranza e alla tortura la parte loro in quell’orribile fatto”, Manzoni non permette ai suoi lettori di distrarre lo sguardo da quelle che ritiene essere le uniche vere “cagioni” di quell’ingiustizia, le quali “non si posson riferire ad altro che a passioni pervertitrici della volontà”. Rabbia e timore, probabilmente, agirono a piegare la volontà dei giudici: “Dio solo ha potuto vedere se que’ magistrati, trovando i colpevoli d’un delitto che non c’era, ma che si voleva, furon più complici o ministri d’una moltitudine che, accecata, non dall’ignoranza, ma dalla malignità e dal furore, violava con quelle grida i precetti più positivi della legge divina, di cui si vantava seguace”.
Verri fu quindi portato a non esaminare in modo corretto i fatti poiché aveva un orizzonte ristretto: una visione dell’uomo e della storia nella quale il male è frutto necessario di errori storici, tutti, progressivamente, correggibili dalla ragione illuminista. Un orizzonte allargato, che voglia essere rispettoso dei fatti e in sincera ricerca della verità, dovrebbe invece tener conto di una considerazione più generale: nessuna legge giusta, nessun sistema razionale, potrà mai eliminare il male che si annida nel cuore dell’uomo: “Noi, proponendo a lettori pazienti di fissar di nuovo lo sguardo sopra orrori già conosciuti, crediamo che non sarà senza un nuovo e non ignobile frutto, se lo sdegno e il ribrezzo che non si può non provarne ogni volta, si rivolgeranno anche, e principalmente, contro passioni che non si posson bandire, come falsi sistemi, né abolire, come cattive istituzioni, ma render meno potenti e meno funeste, col riconoscerle ne’ loro effetti, e detestarle”.
Non accontentarsi di una post-verità significa dunque rinunciare al fascino di quelle narrazioni che assomigliano a dei sistemi, significa rinunciare a una visione di sé edulcorata ma onnipotente (come quella che imprigionava l’innominato prima della conversione), significa rinunciare a soluzioni semplici a problemi complessi, che scaricano sugli altri ogni responsabilità. Ma quale seduzione sarà così potente da mettere gli uomini nella prospettiva di “amare la verità più che se stessi”?
Allora più che domandarsi se l’interesse per la verità sia diminuito per i cambiamenti epocali di cui siamo protagonisti (o vittime), occorrerebbe domandarsi, con Manzoni, quando e perché rinasca nell’uomo il desiderio di una verità che non eluda la triste condizione umana: natura “ferita” e non “ferina”, come sottilmente Prezzolini chiosava il Machiavelli. Nei promessi sposi Manzoni affida all’incontro tra l’innominato e il cardinal Federigo il compito di esemplificare questo processo di liberazione: “io mi conosco ora, comprendo chi sono; le mie iniquità mi stanno davanti; ho ribrezzo di me stesso; eppure…! eppure provo un refrigerio, una gioia, sì una gioia, quale non ho provata mai in tutta questa mia orribile vita!”
La ricerca della verità sembra essere davvero un’impresa per audaci e Manzoni non manca di sottolinearlo con la sua tagliente quanto chiarificante ironia: “Così almeno avvien d’ordinario: che chi vuol mettere in luce una verità contrastata, trovi ne’ fautori, come negli avversari, un ostacolo a esporla nella sua forma sincera. È vero che gli resta quella gran massa d’uomini senza partito, senza preoccupazione, senza passione, che non hanno voglia di conoscerla in nessuna forma”.