Le perplessità manifestate da Daniele Gigli toccano l’impostazione generale dell’approccio che ho cercato di proporre per guardare al mondo della Riforma protestante, nella cornice più ampia del rapporto dei cattolici del nostro tempo con le diversità religiose interne all’universo cristiano. A una messa in dubbio “radicale”, non si può rispondere in altra forma che risalendo al centro dal quale si diramano poi tutte le implicazioni secondarie. Salto perciò le premesse di metodo, le questioni di stile di discorso, di precisazione terminologica, e vengo subito all’essenziale. Lo faccio invitando Gigli (e tutti quei lettori che potrebbero ritrovarsi nella sua posizione di dubbio) a sottoporsi a una verifica diretta, sulle fonti. Proviamo a rimetterci di nuovo insieme, in modo libero e aperto, come se fosse la prima volta, davanti a qualcuna delle creazioni generate nel solco della Riforma nata dalla protesta di Lutero. La sfida sta nel non lasciarsi imprigionare dagli schemi precostituiti di giudizio che inevitabilmente ereditiamo dai percorsi della nostra stessa storia personale.



Cominciamo dalla Messa in si minore di Johan Sebastian Bach, come ben si dovrebbe sapere fedele luterano ortodosso, che però compose anche per i principi elettori del ducato di Sassonia, convertitisi al cattolicesimo in connessione con la loro candidatura al titolo di re del travagliato regno di Polonia, nei primi decenni del Settecento. È opinione condivisa che le partiture di Bach potessero essere usate indifferentemente sia per la messa cattolica, sia per la celebrazione liturgica della dominante confessione evangelica (anche gli “apostati” seguaci della fede di Lutero, infatti, hanno la loro liturgia e accettano il sacramento eucaristico, accostato sotto le due specie secondo la tradizione rimasta in uso pure nell’Oriente ortodosso, in quanto espressione solenne del culto pubblico tributato alla realtà del sacrificio redentore del corpo di Cristo, che si comunica rendendosi presente sull’altare attraverso il rito della consacrazione). Già l’ambivalenza della musica a due facce di Bach è un indizio altamente significativo. Ma anche se Bach aveva tutto l’interesse a farsi amico il principe cattolico della casa dei Wettin, sappiamo per certo che il primo nucleo della sua grande Messa (il Gloria) fu eseguito per la festa di Natale del 1724 nella Thomaskirche, la chiesa (luterana) di Lipsia per cui Bach lavorò come maestro di cappella e che ancora oggi ne conserva le spoglie. Anche le parti della Messa elaborate successivamente, fino alle ultime aggiunte portate a termine l’anno prima della morte, nel 1749, servirono per essere messe a frutto in seno alle liturgie della Chiesa evangelica di Stato.



Ma facciamoci a questo punto una semplice domanda, immaginando di azzerare per un attimo tutto quello che sappiamo (poco o tanto che sia) di Riforma e Controriforma, di transustanziazione e consustanziazione, di teologia patristica del corpus mysticum o di dogmatica scolastica sul culto di Gesù presente nel segno dell’ostia consacrata. A che cosa siamo messi di fronte se ci lasciamo avvolgere dal commento musicale di Bach intorno agli articoli del Symbolum Nicenum (il Credo condiviso dalla cristianità unita dei primi secoli!), ascoltando il suo trionfale Osanna, immergendoci nel maestoso Dona nobis pacem conclusivo? Si tratta di puro virtuosismo tardobarocco, costruito sull’anarchia di un senso religioso individualista e ribelle? O non si tratta, piuttosto, di preghiera intensa, acuta, totalmente coinvolgente, che ci reimmette con inesorabile pazienza, nella calma di uno scavo continuo su di sé, sui propri sensi, sugli affetti del cuore e sulla fantasia della memoria, dentro il mistero della divina presenza che ci viene incontro e si rende di nuovo sperimentabile, toccando la carne della nostra esistenza di uomini altrimenti distratti e smemorati?



Oppure, secondo passaggio: proviamo a riascoltare qualche brano delle Passioni di Bach. Per esempio: concentriamoci sulla stupenda aria da soprano dell’Ich folge dir gleichfalls di quella secondo Giovanni. È come se Bach invogliasse chi lo ascolta a reagire dopo aver assistito alla cattura di Gesù nell’orto degli ulivi, lanciandosi sulle stesse orme di Pietro che si mise a seguire il Maestro con un altro soltanto dei discepoli: “Io ti seguo ugualmente con passi gioiosi / e non ti lascio, / mia Vita, mia Luce./ Segna tu il passo / e non smettere mai / di tirarmi, di sospingermi, di pregarmi” (insieme al testo, in unità perfetta, è la musica che è bellissima). 

Con uno scatto ideale dell’immaginazione, proviamo ora a mettere a confronto quello che Bach ci costringe a rimeditare, quello in cui vuole farci immedesimare, con la crocifissione che sta al centro dell’imponente polittico di Isenheim, dipinto due secoli prima da Matthias Grünewald, tra il 1512 e il 1516, proprio a ridosso della prima manifestazione clamorosa del dissenso di Lutero. Con mezzi diversi il pittore, fattosi più tardi protestante, non attinge forse a un medesimo serbatoio di pietà cristocentrica, fissata sulla fisicità delle sofferenze inflitte alla carne umana di Cristo, sulla potenza rigeneratrice del suo sangue effuso come liquido fiume di grazia, da cui scaturisce la vita nuova del fedele cristiano innestata nella realtà dell’esistenza della Chiesa, a partire da Maria e Giovanni ai piedi del legno della croce, primi testimoni della divina misericordia offerta per la salvezza del mondo? Emerge o no in primo piano la convergenza di un comune spirito ideale di fondo? Qualunque cosa ne pensiamo, è il vento vigoroso della storia più recente che si è incaricato di erodere le asprezze più granitiche della contrapposizione totale fra tradizione cattolica e soluzioni adottate dalla pietà luterana. Dalle lotte sanguinose della prima età moderna, siamo approdati al riavvicinamento degli ultimi decenni, incoraggiato dal Vaticano II e portato avanti con i colloqui, gli incontri, la sottoscrizione di documenti comuni (di cui si racconta ampiamente nel dossier di “Linea tempo”), spunto del mio precedente intervento. 

Ma il legame di una medesima discendenza era inscritto fin dal più remoto inizio. C’è in effetti un terzo e ancora più decisivo passo che secondo me occorre muovere per arrivare a un giudizio pienamente realistico sui contrasti accesi dalla riforma luterana nel tessuto già lacerato dell’Occidente cristiano. Le testimonianze che abbiamo appena citato, mettiamole a confronto con un ventaglio di “documenti” dello spirito religioso moderno ancora più esteso nel tempo e nello spazio, ancora più variegato. Avviciniamole, per esempio, alla teologia del Miserere e al tema dei “benefici” della salvezza dispiegata dall’immolazione di Cristo in Savonarola e nella sua larghissima cerchia, che arriva, di passaggio in passaggio, con apporti molteplici di matrice agostiniana, dei gesuiti e dei barnabiti delle origini, del mistico spagnolo Juan de Valdés e dei suoi appassionati seguaci, fino a Michelangelo e a san Filippo Neri, da una parte, dall’altra fino ai primi cappuccini, con il loro vicario generale Bernardino Ochino, passato poi al fronte protestante, e alla poetessa Vittoria Colonna, autrice di un memorabile Pianto sopra la passione di Christo

È un fatto arcinoto che fino alle definizioni rigidamente costrittive del concilio di Trento le linee del confine tra ortodossia garantita dall’autorità del magistero romano e deviazione apertamente ereticale rimasero fluide, porosamente attraversabili in entrambe le direzioni, con esiti contraddittori che non si riesce a incasellare sempre in modo univoco. La propaganda del dissenso eterodosso rifluiva in una marea di predicazioni e scritture entusiasmanti, come il fortunatissimo trattatello devoto sul Beneficio di Giesù Christo crocifisso verso i christiani, messo a stampa solo nel 1543, che a molti laici colti, a religiosi, vescovi e cardinali illustri, fra cui Reginald Pole, arrivato a un passo dall’elezione a sommo pontefice, o Giovanni Morone, legato di Pio IV (lo zio materno di Carlo Borromeo) a capo delle sessioni conclusive dell’assise tridentina, apparvero, all’inizio, strumenti provvidenziali in vista di una rigenerazione del mondo cristiano, chiamato ad abbeverarsi alle sue sorgenti primigenie e a spogliarsi degli abusi e delle incrostazioni sedimentati nella lunga corsa del tempo. 

La stessa tesi centrale di Lutero — la dottrina della giustificazione per fede — era lontana dall’essere avversata senza la benché minima sfumatura dai teologi cattolici di ogni scuola di pensiero e dagli esponenti delle più varie correnti di spiritualità. Seripando e l’autorevolissimo cardinal Contarini avevano molti dubbi in proposito, cercarono fino all’ultimo di mediare, così come fece dalla parte dei protestanti Melantone, e avrebbero sicuramente preferito una rottura meno drastica del confronto religioso tra le varie opzioni possibili. Se le posizioni rimasero a lungo confuse e la linea della condanna indiscriminatamente intransigente di ogni risvolto della fede luterana si affermò solo nel duro confronto tra orientamenti contrastanti, con il rilancio del tribunale dell’Inquisizione nel mezzo, non deve scandalizzare che oggi, in un contesto storico completamente mutato, gli eredi delle antiche confessioni tra loro nemiche abbiano abbassato le loro armi di battaglia e comincino a guardarsi come fratelli dentro il mosaico sconnesso di ciò che resta dell’antica cristianità. 

La comprensione dei contenuti della fede cristiana evolve incessantemente nel tempo, e lo sviluppo della storia alimenta i linguaggi nuovi con cui essa si trasmette agli uomini di ogni nuova epoca. Per accettarlo come ipotesi, basterebbe forse misurarsi con la geniale intervista dell’ultimo Ratzinger, raccolta insieme ad altri preziosi contributi nel volume Per mezzo della fede. Dottrina della giustificazione ed esperienza di Dio nella predicazione della Chiesa e negli Esercizi Spirituali (a cura di D. Libanori, San Paolo 2016). Anche le verità di fondo della lettera ai Romani, varco privilegiato a cui Lutero attinse già prima del 1517, possono rendersi disponibili a caricarsi di risonanze umanamente inedite.