Durante le mie lezioni di Geografia in università mi è capitato, soprattutto all’inizio dei corsi, di porre ai miei studenti una domanda utile per capire il loro livello culturale: avete una vostra visione del mondo? Rimanevo sconcertato dall’assenza pressoché totale di risposte, da un senso di disagio se non di disinteresse o addirittura di fastidio da parte degli studenti, un’assenza di connotati culturali di base. Immagino che la loro obiezione consistesse nella incapacità di riconoscere un valore ad un pensiero di dimensioni così vaste, per non dire così complesse ed articolate da abbracciare l’intero mondo conosciuto.



Che bisogno c’è di avere una concezione del mondo? E’ un po’ come desiderare di conoscere il “dove” tu sia, dove tu viva, dove tu trascorra il tempo che dedichi a tua moglie, a tuo marito, ai tuoi figli, ai tuoi genitori, al senso della tua stessa vita, se hai cominciato ad abbozzarlo. Il “dove”, ovviamente, non è solo una connotazione geografica, topologica, facilmente riscontrabile, attraverso la cartografia ed i toponimi, ma è un significato che afferisce ad un sistema di relazioni, che, ancora oggi, emerge con molta difficoltà a causa della nostra abitudine a soffermarci più volentieri sul particolare e a non frequentare il sapere inteso come unità del tutto.



Per altri aspetti, la comprensione del “dove” ha subito continue ed importanti evoluzioni, sia in ambito filosofico e scientifico che religioso. Cito solo alcuni riferimenti: da Socrate a S. Agostino, da Giordano Bruno (mai riabilitato, ma la cui orribile morte ha costituito motivo di rammarico da parte di Papa Giovanni Paolo II e quindi della Chiesa) a Galileo Galilei, da Charles Darwin a Papa Francesco.

Eppure, il bisogno fondamentale dell’essere umano consta, da quando esiste la cultura, nell’identificare un quid che sia espressione di un sistema di riferimento che contempli l’autorevolezza, l’assolutismo, l’entità di appartenenza, insomma, l’elemento guida nella “sistematizzazione” di tutto ciò che esiste ed è riconosciuto come reale nella vita di ogni essere.



Partiamo da alcune constatazioni amichevoli.

Pur essendo aumentata in modo esponenziale la popolazione del Pianeta in quest’ultimo secolo, la consapevolezza di una visione del mondo e della realtà che abbia connotati paradigmatici si sta lentamente affievolendo nel mondo scolastico, prima di tutto, e ancora più nel mondo degli adulti.

Tuttavia, la maggior parte degli esseri umani colti non avrebbe difficoltà a riconoscersi in una visione a carattere antropocentrico. Infatti, da quando eravamo bambini, sia in ambito educativo che religioso, ci hanno insegnato che l’essere umano è l’elemento più importante collocato su questo Pianeta, con la conseguenza implicita o quasi che tutto quello che accade è coordinato, letto e indagato attraverso l’intelligenza e la razionalità dell’essere umano, direi meglio dell’essere “maschio” più che della donna, concezione estremamente difficile da scalfire persino nei Paesi più sviluppati.

Tutto ruota intorno all’uomo che dispone come gestire il controllo delle risorse della Terra, ma con assoluta inadeguatezza, come dimostrano le frequenti criticità rilevate dai più noti organismi internazionali.

A mio parere, il nodo concettuale che occorre esplorare riguarda un atteggiamento quasi sprezzante verso il tentativo, assai spesso considerato inutile, di indagare sempre più a fondo l’origine di ogni elemento della realtà. Tutto quello che noi “abbiamo”, la nostra stessa vita, le risorse, l’atmosfera, gli oceani, i fiori, le stelle, tutto ci è offerto, noi non l’abbiamo generato e ce lo siamo ritrovato nel corso dei secoli come un patrimonio che utilizziamo quotidianamente, dimenticando o nascondendo progressivamente il dato iniziale “della creazione e della donazione”. Questo dato costituisce la chiave di volta per autorizzare l’essere umano a ergersi come padrone di tutto ciò che appartiene al proprio mondo visivo e sperimentale, arrivando persino alla manipolazione dell’aria che respiriamo.

Se eliminiamo l’aspetto del dono ricevuto, scompaiono due fattori contemporaneamente: rimuoviamo l’idea che ci sia un “donatore” e releghiamo questa lontana e nascosta ipotesi ad uno spazio religioso o sociologico o intimistico. L’accorgersi di un ambiente all’interno del quale sono ospite e la possibilità di riflettere sull’esistenza di un donatore implicano problemi di ordine esistenziale che l’umanità ha tentato di coniugare con il versante più pratico e oggettivo inerente l’uso della materia. L’attuale visione del mondo di rilevanza antropocentrica è uno sguardo piuttosto limitato sulla realtà, sia perché la falsifica, ignorandone l’aspetto della gratuità e della esistenza di un donatore, sia perché presume un’eccellenza dell’essere umano rispetto a qualunque altra forma di vita del Pianeta.

Si potrebbe discettare a lungo sul termine “donatore” ed attribuirgli nomi o determinazioni a volte anche conflittuali tra loro, ma, nella razionalità dell’essere umano nell’arco dei secoli questa figura ha sempre rappresentato un bisogno, una necessità profonda di nominarlo, di riconoscerlo, di avvertirne la dipendenza o il rapporto secondo modalità sinfoniche.

Io mi schiero dalla parte di chi riconosce il donatore, sia della mia vita stessa, sia di tutto ciò che mi circonda, la biosfera. L’esperienza in campo scientifico e non solo mi induce a non commettere un errore grossolano, quello di attribuire al donatore capacità e/o volontà valutabili da me, in quanto creatura, sia sotto il profilo della perfezione dell’atto creativo, sia rispetto all’ideazione dell’essere umano.

La biosfera non è uno zibaldone scomposto e irruente, ma piuttosto, come sta dimostrando e comprendendo la scienza, il luogo della perfezione inarrivabile, della complessità fenomenica, dove il pensiero creativo del donatore è uno spazio di indagine, di apertura alla realtà misteriosa, è un “dove” che annuncia il significato dell’evolversi della materia biotica e abiotica.

Allora si comprende che la visione antropocentrica è scorretta se genera la presunzione che solo la razza umana abbia in sé la capacità e l’intelligenza di dominare quel vastissimo mondo che viene comunemente denominato natura. Persino coloro che non ammettono l’esistenza di un donatore/creatore e che quindi entrano in rapporto con la realtà secondo criteri scientifici, asettici, rimangono stupiti dalla complessità della biosfera, il “dove” da cui ricaviamo il cibo per nutrirci, le fonti energetiche, i sistemi ecologici, gli equilibri della natura.

Le conseguenze sul piano scientifico della visione antropocentrica diffusa sul Pianeta sono riscontrabili in una serie di sotto-visioni che, spesso, generano azioni contrarie all’evoluzione della vita innescando la distruzione progressiva di ecosistemi. Quella che poteva essere considerata una posizione ideale di derivazione biblica si è trasformata nei secoli, a livello di macrosistema, in una serie di strategie politiche e militari rivolte al consolidamento di forme di potere, in nome della prevalenza del pensiero e delle azioni umane sulla consistenza stessa del pensiero del “creatore-donatore”.

Una parte considerevole di scienziati che si occupa principalmente della biosfera sostiene che il cervello umano non sia il sistema più complesso a noi noto nell’universo, ma affermano che la collettività degli ecosistemi che costituiscono la biodiversità della Terra a livello di specie appare sempre più evidente come l’eccellenza della complessità.

Questa posizione sembrerebbe essere decisamente in conflitto con la visione antropocentrica, in quanto, sulla base di osservazioni scientifiche, rileva empiricamente e progressivamente i connotati della creazione. C’è chi si attribuisce il merito di avere scoperto elementi strutturali della biodiversità, c’è chi, scoprendo la interoperabilità dei sistemi ecologici, si inchina alla straordinarietà dell’atto creativo, ma si identifica di fatto come l’unico soggetto abilitato a “raccontare” la composizione della materia e la sua evoluzione.

La finalità di tale processo diventa sempre più motivata e coincide con la missione di “salvare” il mondo, la biodiversità, i cambiamenti climatici, la desertificazione: non si avverte la sproporzione tra l’ignoranza umana e la preziosità della composizione dell’universo, mentre la struttura logica del pensiero rimane senza fondamento gnoseologico, è arbitraria, sia pure secondo il metodo scientifico.

Al fondo, l’uomo non sa per quale motivo intelligente valga la pena vivere… o no?

Intanto qualcuno annota… Ci limitiamo a qualche citazione.

“La condizione umana cambia in tempi molto rapidi e stiamo perdendo o riducendo all’inutilità sempre più velocemente i milioni di specie che hanno mandato avanti il mondo in maniera indipendente da noi e in modo gratuito” (Edward O. Wilson, Metà della Terra, 2016).

“Le neuroscienze al centro della biologia e delle discipline umanistiche” (Commission Européenne, 2011).

“Accrescere il benessere degli individui in modo tale che l’umanità prosperi invece di sopravvivere richiede di passare dalle misure economiche attuali alla piena valutazione del capitale naturale” (People and the Planet, rapporto della Royal Society, 2012).

“A nulla ci servirà descrivere i sintomi, se non riconosciamo la radice umana della crisi ecologica” (Papa Francesco, Laudato si’, 101, 2015).

“L’uomo nella sua arroganza si crede un’opera grande, meritevole di una creazione divina. Più umile, io credo sia più giusto considerarlo discendente degli animali” (Charles Darwin, L’origine della specie, 1859).