Appena dieci giorni dopo la caduta del muro di Berlino, Helmut Kohl presentò al Bundestag un piano in dieci punti per realizzare “strutture confederative” fra i due Stati tedeschi. Non era una svolta di poco conto per chi aveva affermato che la sua generazione non avrebbe visto la riunificazione tedesca. Kohl proseguì con sicurezza nei passi successivi. Diede vita in tempi brevissimi ad una Allianz für Deutschland che nelle prime elezioni libere in Germania Est, il 18 marzo 1990, ottenne un sorprendente successo. Riuscì ad imporre — lui che era di formazione storica e con limitate competenze economiche — un trattato fra i due Stati tedeschi che sanciva (contro il parere della Bundesbank) il cambio alla pari fra marchi orientali e occidentali. In luglio, una sua vacanza a Stavropol, la città di Michail Gorbaciov, propiziò la soluzione del contenzioso con l’Urss, che la Germania si impegnava ad aiutare abbondantemente sul piano economico, ottenendo anche che il paese riunito entrasse nella Nato. Nel settembre 1990, infine, riuscì a cancellare l’antica tutela alleata sulla Germania post-bellica, che riprese così la sua piena sovranità internazionale.
Appaiono ancora oggi sorprendenti la rapidità e la determinazione con cui Kohl prese una decisione tanto difficile e impegnativa, malgrado opposizioni interne ed esterne di ogni tipo. Né prima né dopo, infatti, colui che è stato più a lungo cancelliere, escluso Bismarck, ha mostrato atteggiamenti simili, ricorrendo spesso ad una politica di tatticismi e dilazioni. Ma talvolta non sono gli uomini a cambiare le circostanze della storia, sono invece queste a far emergere nei primi qualità insospettate. Quando ciò accade, però, ci sono sempre motivi profondi, anche se non immediatamente evidenti.
In realtà Kohl si era già mosso nella prospettiva dell’Ostpolitik realizzando nel 1987 il primo incontro tra il Cancelliere tedesco occidentale e il massimo leader politico della Germania orientale. Era dunque persuaso da tempo che i destini delle due Germanie fossero strettamente interdipendenti. Sapeva bene, inoltre, quanto fosse profonda per i tedeschi la ferita inferta dalla divisione, così da renderli pronti anche a grandi sacrifici per rimarginarla.
Sono due elementi importanti per capire perché Kohl non sia arrivato impreparato all’appuntamento con la Storia. Ma ce ne fu sicuramente anche un terzo: la tradizione democratico-cristiana in cui ha militato fin da giovane. E’ stata questa tradizione a suggerirgli le motivazioni di fondo della riunificazione e ad offrirgli, contemporaneamente, l’orizzonte in cui inserirla. Non è stata, infatti, l’ideologia nazionalista a ispirarla: all’inizio degli anni novanta tale ideologia faceva ancora molta paura, tanto più se coniugata al progetto di una “grande Germania”. La riunificazione dei tedeschi è sembrata piuttosto, agli altri europei, un atto di giustizia e di riparazione, dopo una così prolungata sofferenza.
Per impedire il risorgere di anacronistiche velleità di rivincita o di antichi progetti aggressivi era però necessaria anche una stabile permanenza tedesca in un contesto democratico ed occidentale. E, sotto questo profilo, è stato l’uomo giusto al posto giusto nel momento giusto. Nel gennaio 1984 era stato il primo capo di governo tedesco a parlare alla Knesset, il parlamento d’Israele e lo stesso anno aveva incontrato François Mitterrand a Verdun, luogo simbolo dell’odio franco-tedesco. Ha interpretato insomma il ruolo di leader della pacificazione storica, un passaggio obbligato per una Germania alla ricerca di legittimazione internazionale. Anche la sua sincera fede europeista ha costituito una premessa importante per convincere gli altri europei delle buone intenzioni tedesche. Kohl insomma è stato un grande della storia — come lo hanno definito due presidenti americani — non in quanto maieuta solitario di una nuova realtà, ma perché anch’egli figlio di una tradizione importante, che lo ha sorretto e orientato in quel passaggio difficile.
Abbiamo riflettuto ancora poco sul nesso profondo tra unificazione europea e cultura politica democratico-cristiana, ma la figura di Kohl ci conferma che tale cultura politica, allergica ai “nazionalismi esagerati”, per usare il linguaggio di Pio XI e di Pio XII, e favorevole alla cooperazione internazionale, ha avuto un peso rilevante nella costruzione dell’unità europea. Sembra confermarlo, a contrario, anche il declino della spinta europeistica, quando la generazione di Kohl è scivolata sullo sfondo.