La Corte Suprema di Cassazione italiana è entrata decisamente nel discorso sui conflitti tra valori differenti e divergenti fra cittadini e stranieri ospitati. Lo ha fatto con una sentenza (15-5-2017 n. 24084 Sez. Prima Penale) che ha guadagnato subito le prime pagine della stampa e che promette di porsi come punto di riferimento anche in sede europea per un nuovo atteggiamento giudicante. 



Una sentenza che prende spunto da un avvenimento, se vogliamo, banale: un indiano sikh è colto da un poliziotto italiano a circolare con un lungo coltello portato alla cintola; richiesto di consegnare il coltello l’indiano rifiuta adducendo che tale coltello, detto kirpan dagli indiani sikh, viene portato per motivi religiosi identificativi del costume e della cultura della religione sikh. L’indiano è condannato ad una ammenda dal Tribunale di Mantova ma fa ricorso alla Corte di Cassazione che tuttavia si pronuncia in conformità al Tribunale respingendo le ragioni addotte dall’indiano sikh. 



La Cassazione svolge nelle “Considerazioni in diritto” un ampio discorso che appare subito alla stampa originale perché parla di “valori” e di “doveri” delle persone ospitate nei confronti delle società ospitanti. Gli ospitati non sono soltanto titolari di diritti ma hanno dei doveri che derivano dal rispetto dei valori della società ospitante. Fortemente nuovo questo discorso e che fa sorgere (finalmente) molte questioni cui occorre dare risposta.

Vediamo i passi più significativi della pronuncia: “Se l’integrazione non impone l’abbandono della cultura di origine… il limite invalicabile è costituito dal rispetto dei diritti umani e della civiltà giuridica della società ospitante. E’ quindi essenziale l’obbligo, per l’immigrato, di conformare i propri valori a quelli del mondo occidentale, in cui ha liberamente scelto di inserirsi, e di verificare preventivamente la compatibilità dei propri comportamenti con i principi che la regolano e quindi della liceità di essi in relazione all’ordinamento giuridico che la disciplina. La decisione di stabilirsi in una società in cui è noto, e si ha consapevolezza, che i valori di riferimento sono diversi da quelli di provenienza ne impone il rispetto e non è tollerabile che l’attaccamento ai propri valori seppure leciti secondo le leggi vigenti nel paese di provenienza, porti alla violazione cosciente di quelli della società ospitante”. 



Il giudice italiano delle leggi si premura di dire che la propria decisione non si pone in contrasto con la tutela della libertà di religione di cui alla Costituzione e di cui alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo (Cedu) perché questa libertà ha dei limiti. Con evidenza però la decisione ha riguardo al caso del conflitto tra comportamenti legittimi alla luce di leggi e tradizioni religiose diverse da quelle occidentali e norme interne giustificate da valori della tradizione occidentale o della “civiltà giuridica” occidentale (come si esprime il supremo collegio). 

Di fronte al rischio di questo conflitto si possono assumere tre atteggiamenti. 

Un primo atteggiamento è quello di affermare l’eguaglianza fra le diverse culture e tradizioni a prescindere dal loro riconoscimento nelle leggi precedenti, con la  conseguenza di rilasciare in casi di conflitto alla pubblica autorità dello Stato il compito di emanare, per ragioni di pubblica sicurezza, severe normative di divieto che inevitabilmente andranno a colpire anche i comportamenti dei cittadini ospitanti, in precedenza legittimi e ispirati alle tradizioni interne, procurando un generale effetto di appiattimento.  E’ questo l’atteggiamento, a sfondo laico, proprio della cultura francese che ha vietato per legge non solo di portare il velo ma ha vietato tutti i segni religiosi ostensibles, colpendo così nella loro libertà anche i cittadini cristiani ed ebrei. 

Un secondo atteggiamento è quello, di derivazione dalla cultura multiculturale e multietnica, di permettere tutte le differenziazioni, affermando  un quasi illimitato diritto di espressione culturale e religiosa. A questo si è ispirato ad esempio il provvedimento inglese (Road Traffic Act del 1988) che ha consentito agli indiani sikh che portano il turbante di non dover usare il casco sui motocicli. 

Il terzo atteggiamento è quello sostenuto nella commentata sentenza della Cassazione italiana e che afferma la necessità della  adesione degli stranieri ospiti ai valori fondamentali della società ospitante fatti presenti dalla sua civiltà giuridica.

La sentenza della Cassazione rimanda dunque ai valori di riferimento di una società. Ci si può domandare se un organo giudicante può fare un simile richiamo e che senso può avere, visto che il richiamo a “valori” sembra oltrepassare e in qualche modo mettere in ombra il richiamo alle leggi e al diritto “positivo” che è comunemente considerato il vero referente di ogni giudizio. La Corte giudica sulla base del diritto italiano e quindi “i valori” vengono addotti per giustificare una interpretazione dei limiti dell’articolo 19 della Costituzione sulla libertà religiosa e di culto. Ma la Corte fa anche riferimento all’articolo 9 Cedu che offre certamente maggiore spazio a una delineazione dei limiti specialmente con riferimento alla pubblica sicurezza. Proprio questo riferimento e, in generale, l’intento di delineare una linea interpretativa non limitata all’ordinamento interno italiano costituiscono motivo di grande interesse della sentenza. 

Se fosse sorto un dubbio sulla legittimità costituzionale dell’articolo 4 della legge 110/1975 sul controllo delle armi, la Cassazione avrebbe dovuto rinviare alla Corte costituzionale; la Cassazione invece esclude qualsiasi dubbio sulla costituzionalità di tale norma proprio argomentando dalla affermata prevalenza della tutela dei valori della società ospitante; con ciò la Suprema Corte ammette implicitamente che il giudice possa conoscere codesti valori e farne applicazione nel momento in cui confliggono con valori di diversa tradizione religiosa e culturale. “Valore” è ciò che ispira una norma, è, in qualche modo, il suo principio vitale. Giudicare di un valore è in qualche modo trascendere la norma per attingere a qualcosa di stabile che sta prima di essa e la sostiene; il che, nella tradizione occidentale, è la “natura” dei fenomeni declinata dalla storia e dallo svolgersi di una civiltà. E infatti la sentenza fa appello alla “civiltà giuridica” del paese ospitante. 

Il tema è troppo grande perché possa essere qui sviluppato. Mi limito solo a rilevare che poiché la giurisdizione CEDU sui diritti impone per essi una visione europea e poiché, in seguito alle migrazioni, si stanno affacciando all’Unione Europea e si ingigantiscono giorno dopo giorno molteplici problemi di convivenza tra diverse tradizioni culturali e religiose (problemi che non sussistevano prima delle migrazioni stesse), il parametro dei “valori” diventerà sempre più “sensibile” e più importante. Con la conseguenza, in particolare, che il riferimento alle “radici” cristiane dell’Europa, rifiutato in sede di approvazione della Costituzione europea, si andrà ripresentando perché la gran parte dei valori reclamati non potrà che affondare nelle radici cristiane e giudaico-cristiane. 

Peraltro proprio tali “valori” vengono già ora sempre più richiamati negli stessi più recenti documenti europei sia a livello politico che a livello giuridico. 

A livello politico, per esempio nel Documento finale per i sessant’anni dei Trattati di Roma (Dichiarazione dei leader dei 27 Stati membri del Consiglio europeo, del Parlamento europeo e della Commissione, 25 marzo 2017) ove si afferma: “Abbiamo creato un’Unione unica, dotata di istituzioni comuni e di forti valori… Restare uniti è la migliore opportunità che abbiamo di influenzare [le dinamiche mondiali] e di difendere i nostri interessi e valori comuni…Vogliamo un’unione che resti aperta a quei paesi europei che rispettano i nostri valori e si impegnano a promuoverli… ci impegniamo ad adoperarci per realizzare…un’Europa…c he sia orgogliosa dei propri valori e protettiva nei confronti dei propri cittadini…”. 

Anche a  livello giuridico i valori sono sempre più richiamati. Così nei Preamboli riveduti di recente e in alcune norme dei Trattati. Il secondo capoverso del Preambolo della Carta dei diritti fondamentali dell’Ue (Nizza 7 dicembre 2000) come integrato e modificato nel 2007 in corrispondenza col Trattato di Lisbona recita: “Consapevole del suo patrimonio spirituale e morale l’Unione si fonda sui valori indivisibili e universali della dignità umana, della libertà, dell’uguaglianza e della solidarietà…” . Il Trattato di Lisbona (13 dicembre 2007, in vigore dal 1 dicembre 2009) ha inserito nel Trattato sull’Unione due norme (artt. 6 e 7) che innalzano il valore della Carta dei diritti e quello della giurisprudenza sulle tradizioni costituzionali comuni e ha anche inserito nel Preambolo un secondo capoverso che dice: “Ispirandosi alle eredità culturali, religiose e umanistiche dell’Europa…”.  

Inoltre nella giurisprudenza riguardante la dignità umana, la tutela della vita, la libertà e i diritti fondamentali è stato seguito un percorso coordinato di valorizzazione della Carta dei diritti fondamentali di Nizza, della Convenzione Cedu e della giurisprudenza della Corte di giustizia sui principi risultanti dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri, quindi un percorso volto a enucleare e affermare i fondamenti. La necessità di trovare elementi comuni e fondanti ha spinto e spinge sempre più a non stare alla pura lettera normativa ma a recuperare i “valori” che ne stanno alla base. Si tratta di un indirizzo ricco di potenzialità e di promesse per l’affermazione di una giurisprudenza dei valori. 

Su queste stesse pagine del medesimo argomento si è occupato, sotto un diverso angolo visuale, anche Massimo Introvigne, che ha ricordato la nobile tradizione spirituale e rituale dei sikh. Senza voler sminuire l’importanza di tali osservazioni, occorre però notare che portare in pubblico un coltello ritenuto dalle norme di sicurezza pericoloso, per dimensioni e caratteristiche, contrasta appunto con i valori (la tutela della vita, della sicurezza e della convivenza pacifica) della società ospitante e crea condizioni di diseguaglianza con i cittadini della società stessa ai quali invece si vieta di portare coltelli delle stesse dimensioni.