Oggi 2 giugno si celebra la festa nazionale della Repubblica italiana, che nella prospettiva istituzionale va intesa come “la massima espressione dell’integrazione ideale di individui e gruppi presenti nella nostra comunità politica”.
Come ogni anno, la memoria della festività civile ritorna, nell’occasione, a quel 2 giugno 1946, in cui al termine del drammatico e complesso periodo di transizione per il nostro Paese dal fascismo alla nuova fase democratica fu celebrato il referendum sulla forma istituzionale dello Stato, che condusse alla nascita della Repubblica e all’elezione di un’Assemblea costituente. Dopo il “Ventennio”, in un clima di fermento e, nel contempo, pressanti esigenze di riscatto, quasi 25 milioni (24.946.878) di italiani (11.949.056 uomini e 12.998.131 donne), pari all’89,08 per cento degli aventi diritto al voto, si presentarono alle urne per scegliere la forma istituzionale del Paese e per eleggere i 556 deputati dell’Assemblea costituente.
L’interpretazione storica dei dati riconosce oggi serenamente come l’esito del voto referendario abbia allora disegnato la presenza di due “Italie”, culturalmente contrapposte sul punto in questione, in ragione probabilmente delle loro antiche ascendenze istituzionali. Infatti su 23.437.143 voti validi, 12.718.641 (pari al 54,27 per cento) si espressero a favore della Repubblica, 10.718.502 (pari al 45,73 per cento) a favore della Monarchia. Se il Nord, che aveva conosciuto l’occupazione tedesca e la resistenza, votò in massa per la Repubblica e il Mezzogiorno assicurò alla Monarchia oltre il 60 per cento dei suffragi, vi furono però anche importanti “sacche” in controtendenza in alcuni centri e aree sia del Nord che del Sud.
Il risultato elettorale avrebbe poi sancito l’affermazione dei tre grandi partiti di massa: la Democrazia cristiana che conquistò la maggioranza relativa dell’Assemblea (35,21 per cento), e il Partito socialista e il Partito comunista, i quali raggiunsero insieme il 39,61 per cento. Così i tre maggiori partiti riscontrarono complessivamente circa il 75 per cento dei suffragi, confermando il consenso maggioritario detenuto allora dalle forze politiche legate alla tradizione popolare del movimento cattolico e del movimento socialista, e nel contempo si rimarcò un evidente ridimensionamento delle forze di ispirazione liberale, al centro della vita politica nazionale dal 1861 e sino alla fatidica “Marcia su Roma”.
Non si può non riconoscere che nei decenni iniziali della cosiddetta “prima Repubblica”, la scelta del 2 giugno — sia per quanto concerne la sua annuale rivivificazione storica, così come nell’opinione comune —, sia rimasta meno sentita di altre feste “laiche” del nostro Paese, così come va ammesso che ancora oggi essa non sia ancora entrata a pieno titolo nell’identità collettiva. Il passaggio istituzionale che essa rimarcò nel 1946 non fu infatti accompagnato per molto tempo da una rilettura culturale capace di farsi interprete di un idem sentire nazionale, limitandosi per molti versi a riandare alla vicenda repubblicana e democratica del risorgimento e alla sua narrazione retorico-patriottica, proponendo così una rilettura per diversi aspetti piuttosto conflittuale e ancora irrisolta del nostro nation-building.
Anche le modalità di celebrazione della festa nazionale, ovvero la fatidica parata di mezzi militari, apparve vieppiù a molti osservatori di vari prospettive politiche in contrasto ideale con i valori di pace e coesistenza espressi nella Costituzione del 1948, avvicinandone inevitabilmente l’immagine piuttosto al ricordo censurato del “mostrare i muscoli” proprio delle celebrazioni “imperiali” mussoliniane, dalle quali — ovviamente — quasi tutti gli attori politici e sociali (eccezion fatta per la piccola “riserva” in buona parte delegittimata della destra italiana), volevano mantenere il più possibile le distanze.
Così, pur essendo stata presente costantemente nel calendario festivo repubblicano, la celebrazione del 2 giugno sarebbe scivolata progressivamente nella indifferenza, e nel 1977 “per esigenze di risparmio” cessò addirittura momentaneamente di essere festa nazionale. Fu solo nel 2001, su impulso dell’allora presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi, che in un clima di recupero delle “virtù civiche repubblicane”, da egli fortemente sollecitato, il “compleanno laico” dell’Italia venne riabilitato in una chiave però di diversa legittimazione.
Nel quadro politico culturale odierno si è così progressivamente tornati a sottolineare l’esigenza di un “patriottismo repubblicano” più maturo, meno retorico e consapevole delle tante differenze ancora presenti nel nostro Paese. Un senso di attaccamento alle patrie istituzioni che è riassumibile in questa recente espressione del presidente della Repubblica Sergio Mattarella: “si può affermare che la festa del 2 giugno è la festa della libertà di scelta: e per questo è la festa che riunisce tutti gli italiani”.
Proprio la presidenza della Repubblica si sta muovendo in quest’ultimo periodo in favore di una riappropriazione del senso di identità istituzionale anche sul piano storico-culturale, in questo caso attraverso l’iniziativa propulsiva del suo Archivio storico — i cui fondi documentari contribuiscono alla ricostruzione di una “storia pubblica” del nostro Paese —, che si ritiene possa risultare capace di riattivare passioni civili e culturali ed un senso di appartenenza alla comunità nazionale, al di là delle diverse tradizioni politico-ideologiche. Per questa ragione l’Archivio storico ha lanciato recentemente progetti educational quali le “Lezioni di storia contemporanea (1848-1948). Diritti e cittadinanza. Fonti archivistiche e percorsi di ricerca”, in cui si è inquadrato anche il seminario tenutosi ieri presso il Quirinale, dal titolo “2 giugno. La festa della Repubblica e il calendario civile degli Italiani”.
L’incontro, moderato dalla sovrintendente dell’Archivio storico della Presidenza della Repubblica, Marina Giannetto, ha visto la partecipazione, oltre che di chi scrive, di alcuni degli storici italiani attualmente più noti, tra i quali Maurizio Ridolfi (coordinatore nazionale del progetto sul 2 giugno) e Fulvio Cammarano (presidente della Società Italiana per lo Studio della Storia Contemporanea, Sissco), e di alte figure istituzionali, su tutte quella della presidente della Commissione cultura della Camera dei deputati, Flavia Piccoli Nardelli, insieme al Capo di Gabinetto del ministro dei Beni e delle Attività culturali e del Turismo, Giampaolo D’Andrea e al presidente del Consiglio nazionale delle ricerche-Cnr, Massimo Inguscio; sono inoltre intervenuti il presidente dell’Istituto Luigi Sturzo, Nicola Antonetti e il già presidente della Fondazione Istituto Gramsci, ora presidente della commissione scientifica dell’Edizione nazionale degli scritti di Antonio Gramsci, Giuseppe Vacca.
Le relazioni presentate e il confronto della tavola rotonda hanno messo in luce una serie importante di questioni e temi di sviluppo nel quadro della storia culturale italiana orbitante intorno agli inizi della fase repubblicana, che presto confluiranno in un vasto e ambizioso progetto di ricerca nazionale sul Referendum promosso dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri. Nell’incontro di ieri al Quirinale, il mio intervento è stato volto a restituire alcuni dati e alcune riflessioni ancora in itinere di una indagine su vasta scala atta a ricostruire i passaggi di definizione del perimetro istituzionale repubblicano nelle aree di confine alpino all’indomani del Referendum del 2 giugno, cercando così di rispondere allo stimolo culturale proveniente dall’Archivio storico inteso a precisare il valore ideale di una data considerata unificante, nella ricerca delle radici profondamente innestate nella “lunga” storia d’Italia, e in particolare nei settant’anni di vita della Repubblica, anche attraverso la documentazione di rituali e prassi politiche la cui interpretazione consenta di precisare l’identità di un popolo nel suo rapporto tra storia e memoria pubblica.
Un intervento che per necessità non poteva che presentare soprattutto delle domande, nuove o già in parte formulate in passato, circa l’identità dei territori alpini all’indomani della fine della seconda guerra mondiale, un’area che non a caso fu oggetto di particolari tensioni nazionali e internazionali circa la definizione dei confini di sovranità della nuova Italia che cercava la sua legittimazioni sulle ceneri del fascismo. Cosa ha significato così (ri)costruire un sentimento nazionale nelle aree montane del nord d’Italia all’indomani della tragica conclusione del secondo conflitto mondiale, dove la lotta al nazi-fascismo, e in ampie sacche territoriali pure lo scontro di natura civile tra il nazionalismo repubblichino e il movimento partigiano, avevano offuscato il senso di appartenenza allo stato unitario, con la complicazione tangibile delle spinte centrifughe ivi presenti di carattere autonomistico, indipendentistico e annessionistico rispetto alle nazioni confinanti (Francia, Svizzera, Austria, Jugoslavia)?
Qual è stato il disegno e l’impatto concreto di una narrazione politica volta a legittimare il nuovo progetto repubblicano in queste aree così confuse nei loro rapporti con le istituzioni, tradizionalmente piuttosto avverse all’impostazione monarchica (dall’antisabaudismo valdostano all’irredentismo del Nord-Est), in cui il tema della partecipazione democratica spesso si mescolava e/o annacquava con un più interno, profondo e antico sentimento di autodeterminazione rispetto al governo centrale?
Che ruolo hanno giocato in tale progetto di nuovo nation-building le strategie e le tattiche di promozione festiva dell’immagine repubblicana, attraverso la santoralizzazione dei fatti e dei protagonisti della Resistenza e la pubblicizzazione alle masse locali dell’applicazione di uno specifico welfare, nel consolidamento di un nuovo senso di appartenenza nazionale all’interno di queste aree di confine?
Questioni che, pur rilevate in un’area geografica contenuta, eppure quanto mai strategica nell’Italia del 1946, evocano temi decisivi proprio nella ricostruzione del nostro Paese, del suo senso di appartenenza ad una comunità democratica, e pure della sua adesione alle forme pubbliche di legittimazione, quali appunto le festività civili, come su tutte, proprio il 2 giugno.