Una delle più intriganti serie televisive dell’ultima stagione è stata indubbiamente “The Young Pope”, targata Paolo Sorrentino, mandata in onda da Sky Atlantic. La storia di Lenny Belardo, giovane cardinale americano eletto Sommo Pontefice con il nome di Pio XIII, non è che l’ultimo esempio dell’interesse che la letteratura, in particolare quella dell’immaginario, ha sempre avuto per la Chiesa cattolica e in particolare per i suoi vertici. Da Il Cardinale di Robinson a Guido Morselli, dal papa russo immaginato negli anni 80, in piena Guerra Fredda, da Morris West fino a chi ha dato continuità alle avventure di Padre Brown portandolo sul Soglio di Pietro, la fantasia degli scrittori si è spesso sbizzarrita intorno al Successore del Principe degli Apostoli. 



Una delle opere più significative di questo filone, che sembra avere ispirato almeno in parte la serie di Sorrentino, è Adriano VII, dello scrittore inglese Frederick Rolfe, un personaggio singolarissimo vissuto alla fine dell’800 e morto a Venezia nel 1913. Rolfe appartiene a quel gruppo di artisti inglesi dell’ultima parte dell’epoca vittoriana che furono attratti dal cattolicesimo, da quella Chiesa che — uscita finalmente da quelle catacombe in cui l’aveva confinata per tre secoli l’establishment britannico — aveva conosciuto a partire dal grande convertito John Henry Newman una nuova entusiasmante primavera. Se molti dei convertiti al cattolicesimo divennero degli apologeti e dei testimoni della fede, da Coventry Patmore a Pugin, fino al grande Chesterton, altri furono invece artisti anticonformisti e controversi, come Oscar Wilde, Aubrey Beardsley, e come appunto Frederick Rolfe, la cui vicenda umana e artistica viene narrata da Luca Fumagalli nel volume di recente pubblicazione Il viaggio sentimentale di Frederick Rolfe, Edizioni Radio Spada.



Fumagalli ripercorre la storia di questo londinese figlio di un produttore di pianoforti; che fu per breve tempo insegnante, che si convertì alla religione cattolica nel 1886, e che per lungo tempo coltivò il sogno e la speranza di diventare sacerdote. Una speranza frustrata dalle autorità ecclesiali che non lo vollero accettare, anche a causa della sua incapacità di concentrarsi sugli studi sacerdotali e dei suoi comportamenti irregolari e indisciplinati. Decise tuttavia di stabilirsi a Roma, nel cuore della cristianità, ed entrò nel circolo della duchessa Sforza Cesarini, che lo adottò come un nipote e gli diede il titolo di “Baron Corvo”, che divenne il suo più conosciuto pseudonimo. Visse facendo quasi sempre affidamento su benefattori e amici, anche se la sua natura polemica e la tendenza a spettacolari litigate con la maggior parte dei suoi amici, compreso il grande scrittore Robert Hugh Benson, l’autore del Padrone del mondo, che cercavano di aiutarlo, lo portarono a finire nei suoi ultimi anni a Venezia, senza soldi e senza fortuna. Morì a Venezia per un infarto il 25 ottobre 1913, a cinquantatré anni, in completa povertà, e fu seppellito sull’isola di San Michele.



Nel suo libro Luca Fumagalli ci rivela l’anima profonda di Baron Corvo, un autore che non può lasciare indifferenti, che ci viene presentato come un dandy paranoico, un po’ cialtrone e perennemente squattrinato, ma dalla fede profonda. Basta sfogliare le pagine del suo romanzo più famoso, Adriano VII — la storia di un oscuro letterato che diventa Papa — per rendersene conto. In esso, infatti, ingenuità dal sapore decadente convivono con un cattolicesimo ben saldo dal punto di vista dottrinale e radicato nella tradizione.

Baron Corvo rappresenta forse l’ultimo esponente di quel Decadentismo inglese fatto di vizi indicibili ma anche e soprattutto di straordinarie conversioni alla Chiesa di Roma, fatto da uomini, artisti che trovarono nel cattolicesimo un’opportunità per lasciarsi alle spalle i peccati di un’esistenza dissoluta. Baron Corvo, attraverso la sua picaresca parabola esistenziale, mostra come l’uomo sia una commistione di bene e male e come a tutti, prima o poi, tocchi scegliere da che parte stare.

Da questo punto di vista Fumagalli affronta anche uno degli aspetti più delicati della personalità di Rolfe: la sua omosessualità, vera o presunta. Se è vero che in numerosi dei suoi scritti si possono ritrovare degli elementi omoerotici, è altrettanto vero che Rolfe riuscì a padroneggiare sempre la propria sessualità, che riuscì a coniugare perfettamente con la propria religiosità.

La fede restò sempre la sua stella guida, in una condizione umana caratterizzata dall’incompiutezza e dal fallimento. Non riuscì ad identificare pienamente la sua vocazione, ma il suo amore per il sacerdozio, per la liturgia, per la missione della Chiesa nel mondo gli fecero realizzare nel 1904 il suo capolavoro, quell’Adriano VII  che è una sorta di romanzo autobiografico, o per meglio dire, un’autobiografia fantastica in cui un oscuro letterato inglese è eletto papa e cerca di realizzare i propri sogni di cambiamento della Chiesa. Un papa giovane, un papa che non ha paura di sfidare il mondo anziché cercarne il plauso, un papa che vuole innovare senza però trascurare il deposito della tradizione. Una sorta di eremita che ha lasciato la solitudine e il nascondimento per richiamare l’umanità a Dio, Colui che solo conta.