Un vecchio indovinello, dei tempi in cui non c’era internet a fugare tutti i dubbi e alle domande oziose bisognava perciò dedicare più tempo del tempo di un clic, recitava più o meno così: un aereo cade esattamente al confine tra Italia e Svizzera. Dove vengono seppelliti i superstiti?
Una domanda in realtà non così oziosa, perché quello dell’appartenenza — a un’idea, a un luogo, a una persona — è un tema che per quanto possa piacerci snobbare, resta invece un punto incendiato nella vita di chiunque. “Everybody needs somebody” e se continuiamo a canticchiarlo dopo quarant’anni forse è perché in fondo in fondo sappiamo che tutti noi vogliamo appartenere a qualcuno o a qualcosa. Diversamente, non avrebbero ragion d’essere le discussioni su muri, ponti, legittime difese et similia, il cui nuovo capitolo si sta consumando in queste settimane nel dibattito sullo ius soli e sulla legge che il parlamento ha improvvisamente deciso essere inderogabile.
Così improvvisamente urgente, così improvvisamente inderogabile, che nello scontro da melodramma in cui ognuno fa la sua parte — il partito dei legalisti, quello degli identitari, quello dei “bleeding hearts and artists” — nessuno sembra porre, prima di dire sì o no, prima di dire si faccia così o si faccia cosà, una semplice domanda: ma che cosa vuol dire essere cittadini? Anzi, meglio, che cos’è che fa venire il desiderio di essere cittadini?
Domanda oziosa, forse, ma che sicuramente non era tale per T.S. Eliot, l’americano che volle farsi inglese. Cresciuto nell’America bostoniana, Eliot si trasferisce poco meno che trentenne in Inghilterra, innamorandosi a poco a poco di quella terra e di quella cultura dalla quale i suoi antenati erano partiti nel tardo Seicento. Un percorso muscolare, il suo, di nervi e d’intelletto, che lo porta a interrogarsi presto su tradizione, civiltà e cultura, come ben si vede nella lettera all’amica Mary Hutchinson del luglio 1919. In quelle poche righe, che illuminano il coevo saggio Tradizione e talento individuale, Eliot trasuda ciò che la sua vita e le sue passioni stanno via via distillando in certezza morale e intellettuale. Così, dopo aver ammesso di sentirsi al cospetto del suolo inglese come un meteco, egli descrive all’amica la differenza tra civiltà (civilization) che è come un alveo “impersonale, tradizionale” e cultura (culture), che in quest’alveo scorre e che si definisce come “un interesse personale e una curiosità in cose particolari“.
È attraverso questo percorso di appropriazione intellettuale e umana che, a poco a poco, Eliot si riconoscerà “classicista in letteratura, monarchico in politica e anglo-cattolico in religione”, scolpendo in questa breve frase la sua dichiarazione d’amore al paese che lo aveva accolto e alla sua cultura. Un paese e una cultura che lo avevano rivelato a se stesso e ai quali desiderava appartenere, prendendo la cittadinanza britannica. Eppure… eppure Eliot — pur pienamente inglese — resterà anche, e prima di tutto, un americano. Alla sua infanzia sulle spiagge di Cape Ann la sua mente ricorrerà per tutta la vita, da Marina del 1929 a The Dry Savages di dieci anni più tardo; e alla letteratura americana resterà in fondo fedele il suo immaginario di poeta, come ammetterà egli stesso in una tarda intervista, dichiarando che “la fonte, la sorgente emotiva, viene dall’America”.
Destino uguale e contrario a quello del suo amico Pound, che poco prima di lui era sbarcato in Inghilterra, poi in Francia e in Italia, anch’egli cercando — forse in modo più intellettuale e perciò più rapsodico — delle radici che sentiva di non avere sufficientemente profonde. S’innamora, il giovane Ezra, non del Regno Unito ma dell’Italia: di Sirmione e di Venezia, di Rapallo e del fascismo, in cui vede la massima espressione reale di quello stato corporativo che sogna per i suoi States (e non solo lui, se è vero che molti, negli anni Venti e Trenta, vedono un simile sistema statuale come ideale praticabile e capace di garantire equità ai cittadini). Ma pur innamorato sinceramente dell’Italia, della sua gente e dei suoi luoghi, pur innamorato dell’universalismo medievale e della dottrina sociale della Chiesa cattolica, in cui vede le risposte ideali al mondo dell’usura, mai Pound arriva a sognarsi di non essere più americano. L’amore per queste cose, anzi, lo rende più profondamente patriota, così patriota da insistere, prima e dopo Pearl Harbor, nel tentativo di dissuadere i suoi connazionali dall’imbarcarsi in una guerra che ai suoi occhi è contraria agli interessi del popolo americano e allo spirito della sua Costituzione: “Per quanto ne so il mio lavoro è salvare ciò che rimane dell’America, e mantenere in qualche modo una forma di civiltà. Mi rifiuto di essere complice dei distruttori”. Un amore al suo popolo e alla sua terra che gli costeranno infamie di ogni sorta, la gabbia per bestie di Pisa alla fine della guerra, tredici anni di ospedale psichiatrico e alla sua liberazione l’esilio di fatto dal suo paese, tanto che verrà a terminare i suoi giorni a Rapallo. Perché per lui il traditore era Roosevelt, anche se la storia ha deciso altrimenti.
Ma le vite, lo sappiamo, non sono eventi singolari, sono tracce e intrecci di storie e di persone. Così, in uno di questi intrecci, proprio il Pound italiano, nei tardi anni Venti, si trova a essere uno dei rari conforti di Emmanuel Carnevali. Carnevali, chi era costui? Come si è già raccontato in queste pagine, fu l’italiano che volle farsi americano, uno spatriato dell’anima che in America trovò la sua lingua e la sua vocazione. Scappato oltreoceano appena sedicenne, lavorò come garzone, imparò a parlare leggendo i cartelloni pubblicitari per strada e nel giro di un niente cominciò a leggere e scrivere poesia — lui che mai era stato brillante in Italia — e a farlo in inglese, fino a diventare per un certo periodo condirettore di Poetry, una delle riviste fondative del modernismo.
Poi la malattia, l’encefalite, e l’impossibilità di essere autosufficiente, che lo costringono a tornare in Italia nel 1922. Un ritorno e — finalmente — una patria, incarnata nelle cure della sorella. Come detto gli è vicino, tra i pochissimi, proprio Pound, che invita i volubili poeti modernisti a “non dimenticarsi dell’amico italiano”. E che ancora, più concretamente, va a trovarlo, gli commissiona traduzioni italiane dei propri Cantos, lo aiuta a pagare le cure mediche e ne sopporta le bizze improvvise e talvolta paranoidi con cui lo assale per via epistolare.
Proprio a Pound, nella corrispondenza relativa alle traduzioni dei Cantos, Carnevali si ritroverà a confessare quella sensazione di straniamento e di esilio che il tentativo di scrivere in quella che dovrebbe essere la sua lingua madre gli procura: “io in italiano non so scrivere”. Padrone della lingua inglese quanto mai lo è stato davvero del suolo americano, una volta tornato nei suoi luoghi Carnevali si scopre legato a un luogo e a una carne, ma senza possederne la lingua, esiliato infine come il povero Mohamed Shehab, l’uomo che non seppe diventare Marcel.
Sono tre vite, tre racconti di vita che non intendono dimostrare niente, se non che, forse, quando si parla di amore e di legami, di terra, di frontiere, di paura e desiderio, quando si parla insomma del fuoco della vita e della morte, non si può non fermarsi anzitutto a chiedersi di che cosa stiamo parlando. Di curare, cioè, anzitutto la chiarezza delle parole che diciamo e di quelle che dicono i nostri interlocutori. Perché non è di questo, invece, che si sente parlare in questi giorni, in parlamento e sui giornali, su Facebook e al bar. Si sta parlando di tutto, tranne di che cosa significhi per noi essere cittadini, legarsi a una terra, separare una terra da un’altra, definire, amare e tramandare una cultura. E se non chiariamo anzitutto questo, se non curiamo anzitutto il significato delle parole, la vicenda andrà avanti come andrà e noi come tutti faremo la nostra parte, ma continuando a parlare di altro e non di ciò che crediamo.
Succede così anche nell’indovinello dell’aereo, in cui cascano quasi tutti, ma che ha una risposta molto più semplice e diretta: “Dove vengono seppelliti i superstiti, in Italia o in Svizzera?” “Da nessuna parte: i superstiti sono sopravvissuti”.