Chiunque abbia scoperto Tolkien non per furor di spada ma per l’attrattiva mesta di manti grigi e lunghi cammini ha certamente provato una tenerezza speciale per la storia di Beren e Lúthien, l’uomo mortale e l’Elfa immortale, che nel Silmarillion Tolkien annuncia con parole di speciale intensità: “Fra i racconti di dolore e di rovina che ci sono giunti dall’oscurità di quei giorni ve ne sono tuttavia alcuni nei quali misto al pianto sta la gioia (…) E fra queste storie la più bella alle orecchie degli Elfi è il racconto di Beren and Lúthien”.
La recente pubblicazione di una nuova edizione di Beren and Lúthien che raccoglie materiali presenti in vari punti dei dodici volumi della History of Middle-earth, e che è tradotta in italiano da Bompiani (Beren e Lúthien, a cura di Christopher Tolkien, traduzione di Luca Manini e Simone Buttazzi, illustrazioni di Alan Lee), mostra l’evoluzione della storia stessa nelle mani di Tolkien e del figlio Christopher, come per tutti gli altri volumi. Il curatore ricostruisce quanto gli appare come la “storia della storia”, fornendo dapprima la versione originaria scritta dal padre (nel 1917 Beren era un Elfo, non un uomo, e Sauron nulla di più di un grande gatto malvagio), e proponendo poi brani in prosa e versi da testi tardivi, nonché tutto quanto utile a diramare genealogie e geografie di Tolkien. Ne esce una storia lineare, anche se l’operazione filologica può suscitare perplessità, come sottolineato da Michele Mari su Repubblica. Non più il puro Omero, ma un Pascoli e un Nietzsche riscritto da chi è sia curatore che figlio, e che a mio parere tradisce Tolkien perché, più che scrivere delle storie, Tolkien le “trascriveva”, attorno a quel nucleo certo che sono The Hobbit and The Lord of the Rings, e su cui Christopher T. ha stratificato ulteriormente, dovendo, tuttavia, dare una qualche forma di “definitività”, per quanto articolata, a quanto rimase, nelle mani di Tolkien, magmatico. E se nel caso di altri autori si può parlare di opere incompiute, per Tolkien è più corretto parlare di opere in eterno divenire. Ciò le rende improponibili a noi lettori, che cerchiamo un “romanzo”, una “storia”; ciò è, a mio a parere, sufficiente a giustificare il chiudersi dell’eterno divenire in una forma.
Nello specifico caso di Beren e Lúthien, la chiusura appare particolarmente accettabile, per la continuità narrativa che Tolkien sembrava aver ben presente per loro, e che probabilmente risale al processo di trasposizione e/o identificazione (il magmatismo di Tolkien riguarda anche il rapporto fra il suo narrato e il suo vissuto) fra Beren e Lúthien e Ronald ed Edith, sua moglie.
Tolkien ha intessuto la vicenda di Beren e Lúthien ben profondamente nel filato della sua opera, e vi ha celato, o vi ha trovato, se stesso e la moglie. L’autore scrisse la prima versione di Beren and Lúthien alla fine del 1916, al rientro dalla battaglia della Somme, una delle più grandi carneficine della Grande Guerra di trincea che avviò l’era della guerra totale. La moglie di Tolkien che danzava in una radura fiorita, ben diversa dall’esperienza del giovane soldato rientrato dal fronte, è Lúthien che balla quando Beren la vede e se innamora; la persistenza di quella bellezza apparentemente così fragile rispetto alla devastante esperienza della guerra è testimoniata dai nomi apposti sulle tombe di Tolkien e della moglie, Beren e Lúthien.
E’ di questi due sposi che Aragorn canta ne Il Signore degli Anelli poco prima che il buio si mostri per la prima volta agli Hobbits nel loro viaggio fuori dalla contea, è da loro che Aragorn, e la donna Elfa da lui amata, Arwen, discendono, è la luce del Silmaril rubato che ha dato vita alla stella del mattino, quella che Galadriel consegna a Frodo perché gli faccia luce dove ogni altra luce si spegne.
Quel breve momento di gioia nella danza rimase all’interno della carriera letteraria e della vicenda umana dello scrittore, anche se Lúthien non è famosa per la danza, ma per il canto. Nel Silmarillion, la musica di Ulivatar ha creato tutto ciò che esiste, e far parte di quel canto è che tutti gli Eldar, tranne uno, desiderano; anche Lúthien canta di fronte a Morgul, e i pensieri sconci di costui non impediscono che la bellezza del canto e della cantante lo inchiodino lì, estasiato dal canto di lei; fino a che uno dei gioielli del Silmarillion incastonati nella sua corona, posata su una testa resa pesante dal manto di ragnatela che gli cade per caso addosso, viene estratto dalla corona di Morgul dormiente dal coltello di Beren. In mezzo all’orrore, che ha portato i due innamorati nel luogo più lurido del mondo sotto le spoglie più luride, l’amore sembrerebbe vincere. Ma non è da Tolkien presentare vittorie dove non sia chiaro, sempre e comunque, che tutti cadono, anche gli amanti più perfetti, e nemmeno l’amore salva dalla tentazione della luce delle stelle racchiusa in gemme.
L’avidità si insinua anche lì; uno dei Silmarils è quanto il padre di Lúthien ha assurdamente preteso per cedere la mano della figlia ad un mortale, e Beren lo ha preso, conquistato; se Beren e Lúthien fosse la storia romantica che certo gusto chiederebbe, Beren fuggirebbe subito col pegno che gli conquista la sposa. Ma Beren tenta di estrarne un altro dalla corona, perché è natura umana cedere all’attrattiva di ciò che ci supera, sia ciò l’Anello o il gioiello che contiene la luce delle stelle. Gollum uccide per l’anello, Boromir tradisce per l’anello, Denethor impazzisce per un trono che dovrebbe solo reggere, Frodo si infila l’anello che stava per buttare nella fornace di Monte Fato. Nulla di meccanico, certo; Lady Galadriel non sceglie l’anello, Aragorn sceglie Frodo, e non l’anello, e Sam sceglie l’amico Frodo e non il grande guerriero che l’anello gli mostra. Non ci sono cieli dove la scelta non sia sempre possibile, e libera, in Tolkien (che sia per questo che sia da ritenersi uno scrittore cattolico? Contaminato fino all’osso dal sentore nordico della fine delle cose, della loro dipartita inevitabile?).
Qual che sia, nel caso di Beren la scelta è di cupidigia, e repentina; il coltello che ha estratto un gioiello dalla corona non compie due volte lo stesso miracolo, e si spezza; il disastro colpisce sia Beren che Lúthien, certo non Eva tentatrice. Morgorth si sveglia, e la fuga precipitosa dei due amanti si infrange sulle zanne di Carcharoth, un lupo mannaro gigantesco, che tronca la mano dove Beren stringe il gioiello, e la ingoia. Questa arroventa le budella del lupo mannaro, perché non è altro che la luce di una stella incastonata in un gioiello da Fearnor, e la bestia fugge seminando morte.
Di fronte a Thingol, il padre di Lúthien, che pretende il gioiello per dargli in sposa la figlia, Beren allunga il braccio senza la mano, e poi l’altro, mostrando la mano vuota; espressione compiuta dell’incompiutezza umana e della sua gloria. Nulla può fare un uomo, nemmeno con il fascino del canto degli Eldar, per trattenere nella sua mano la luce delle stelle; non è la conquista del gioiello, ma la sua mano vuota, che gli porta Lúthien come sposa.
Ma anche qui la gioia è solo temporanea, perché il destino di Beren e Lúthien è il più crudele. Gli amanti o sposi umani muoiono, e nella morte sono riuniti per l’eternità, ma non Lúthien. La morte è il dono che Ulivatar ha dato agli uomini, il regalo prezioso che li separa dagli Eldar, e Lúthien non vedrà mai più il suo Beren, ucciso dal lupo mannaro che ha ingoiato il Silmaril, e questo “mai” ha la lunghezza reale dell’eternità.
I dimessi e immensi amanti che Tolkien ha immaginato sconterebbero quindi l’unica cosa che è intollerabile agli amanti, cioè di essere separati per l’eternità; il canto di Lúthien nelle aule di Mandos le porta in dono quanto desidera: non solo che Beren torni alla vita, ma che lei possa un giorno morire come lui. Agli amanti umani è concessa quell’eterna vita assieme che agli Elfi è negata.
La rivisitazione filologica della storia di Beren e Lúthien prosegue mostrando il destino della luce del Silmaril rubato a Morgoth; passa al marinaio Eärendil, lo trasforma nella Stella della sera, ed è la sua luce che riempie la fiala che aiuta Sam e Frodo a penetrare le tenebre di Mordor. E anche se Aragorn non proteggerà Frodo nell’oscurità, è da Beren e Lúthien che sia lui che Arwen discendono; ed è proprio di Beren e Lúthien che il canto di Aragorn parla, quando Frodo sta per affrontare le tenebre per la prima volta nella sua vita.
A protezione di tutto, verrebbe a dire, Tolkien ha posto non il potere dei maghi come Gandalf, o la bellezza degli Elfi, o l’ascia dei nani, o le torri delle città degli uomini, ma due amanti che, per vivere sempre assieme, desiderano poter morire, e che guadagnano il premio più ambito con la preghiera della mano vuota e del canto.
La nuova edizione di Beren e Lúthien sarà qualcosa di più dell’operazione commerciale paventata da taluni, come accaduto per tutta la pubblicazione della History of the Middle Earth, se il lettore andrà al fondo degli intrecci qui ricostruiti relativi alla vicenda dei due amanti, per cogliere che Beren e Lúthien non sono Romeo e Giulietta, tragici amanti separati dal Fato crudele, ma una coppia che ha scelto di invecchiare assieme, e di non accettare che le loro strade siano divise ove solo conta, nell’eterno. Tutto quanto vien prima può essere dolore e sacrificio, ma il premio finale è insuperabile.
Perché, se fosse possibile chiedere a Lúthien, vi risponderebbe che l’eternità è nulla se non è in e la compagnia dell’Essere amato.