“Le colpe dei padri” è stato il tema di riflessione proposto nel Seminario residenziale organizzato dall’Istituto meridionale del Centro italiano di psicologia analitica (Cipa) per i propri soci analisti e per gli allievi della scuola di specializzazione in psicoterapia a indirizzo junghiano, quale esito del lavoro annuale di ricerca e approfondimento sui contenuti emergenti dalle tradizionali rappresentazioni classiche di Siracusa.
In maniera inusuale, l’Istituto nazionale per il dramma antico (Inda) per questo 2017 aveva proposto Sette contro Tebe di Eschilo e Le Fenicie di Euripide, tragedie non particolarmente “popolari” e, per di più, di uguale argomento: la fine del Ciclo dei Labdacidi, la stirpe di Edipo, discendenza mitologica notoriamente infelice.
Secondo l’intreccio di un’opera euripidea andata perduta, Laio, figlio di Labdaco re di Tebe, durante i giochi di Nemea violò l’ospitalità del re Pelope, con il rapimento e lo stupro del figlio giovanetto Crisippo, del quale si era invaghito. Un’azione che, oggi, non esiteremmo a definire di pedofilia, e che assai spesso definisce la dimensione incestuosa, sia in senso proprio perché intrafamiliare o intraclanica, sia in senso traslato perché ricorrente, per quanto con incidenza assai minore, nelle relazioni di intimità educativa, laica o religiosa.
Il seguito della storia è noto. Diffidato dall’Oracolo di Delfi di non generare perché da un figlio sarebbe stato ucciso, di fronte alla nascita di non voluta progenie Laio prese una decisione estrema: trafisse i piedi del bambino per farvi passare un laccio e lo appese a un albero del monte Citerone. Ma Edipo (“dal piede gonfio“) sopravvisse e fu adottato dai sovrani di Corinto. Allontanatosi dalla famiglia adottiva affinché non si avverasse quanto a sua volta a lui profetizzato (uccidere il padre e sposare la madre), giunse a Tebe, realizzando, inconsapevolmente, il vaticinio. Lungo il cammino venne a contesa con il protervo re Laio e l’uccise; giunto nella città, la liberò dalla funesta presenza della Sfinge, risolvendo l’enigma che il mostro proponeva ai viandanti prima di divorarli, per cui venne proclamato Re di Tebe e dato in sposo alla vedova del re, con la quale generò quattro figli. Quando la devastazione portata da una pestilenza impose, sempre per via oracolare, di trovare l’uccisore di Laio, l’istruttoria di Edipo condusse alla verità: lui stesso aveva ucciso il proprio padre e aveva sposato la propria madre. Né l’autoaccecamento di Edipo, né il suo esilio volontario, né il suicidio di Giocasta posero fine alla maledizione di Pelope: Eteocle e Polinice, i figli maschi di Edipo, si ritrovarono in guerra per il potere e si diedero reciproca morte in battaglia. A Polinice, che con altri sei aveva condotto l’assedio a Tebe, fu vietata la sepoltura, secondo un diritto inesorabile e senza pietà contro il quale si sarebbe battuta la sorella Antigone, invocando le ragioni dell’umana compassione contro il rigore della Legge.
La narrazione mitologica, in pieno accordo con la tradizione greca che riconosceva il ruolo determinante della hybris, la tracotanza di un’azione accaduta nel passato che influenza in modo negativo gli eventi successivi, mostra nella stirpe di Edipo il motivo ricorrente dell’arroganza del potere e della ragione. Motivo questo che, a distanza di secoli, sarà ripreso da Dante nella prospettiva cristiana di chi guarda al peccato come l’attualizzazione della colpa originaria del mettersi al posto di Dio.
Arrogante Laio per la pederastia, non tanto per il rimando omofilico di scarsa pregnanza per i greci antichi che non riconoscevano la duplicità dell’eros sessuale ma solo la polarità attività/passività, quanto per l’ospitalità oltraggiata e la pervertita funzione educativa, dal momento che il giovane Crisippo gli era stato affidato dal padre per imparare la conduzione di una carro equestre.
Arrogante Edipo che risolve l’enigma della Sfinge sfidando gli dei. Qui la hybris appare meno letterale e più metaforica. Edipo è l’uomo moderno che, come l’Ulisse dantesco, tenta di costruire la propria identità sull’atto eroico piuttosto che sull’ascolto religioso dei propri limiti. Edipo è anche l’uomo post-moderno non più definito dalla relazione col trascendente (la “morte di Dio” di nietzschiana memoria), ma diventato comprensibile a se stesso solo per la relazione con la techne, l’arroganza tecnologica che si impone, oscurandola, sull’immaginazione, sulla fantasia, sulla ricchezza emotiva e creativa dell’intelligenza.
Nel tempo della post-modernità, un profondo cambiamento, allo stesso tempo identitario e relazionale, è in atto. Chi lavora in ambito clinico fruisce di un osservatorio privilegiato per il riscontro frequente di espressioni di disagio psicologico nuove e diverse che affiancano l’intensificarsi delle manifestazioni più tradizionali e conosciute. Dipendenze patologiche (con- e senza-sostanze), disturbi del comportamento alimentare, inusuali manifestazioni depressive, disordini gravi della personalità sono le forme attuali del “male di vivere” che, peraltro, si presentano sì come domanda di aiuto, ma spesso con capacità introspettiva povera, con affettività immatura e con un’espressività della sofferenza incongrua e ambivalente; sono esperienze di disagio caratterizzate dal fallimento adattativo: sentimenti di vuoto, di noia, di insignificanza, di difficoltà a definirsi, di inadeguatezza, di derealizzazione. Si configura così la “clinica del vuoto”, segnata dal passaggio dal sentimento, individuale e collettivo, dell’assenza (dove il vuoto non è ancora colmato) a quello della mancanza (dove il vuoto non è più colmato né appare più colmabile).
E’ difficile ancora pervenire a una comprensione efficace, ma è un dato evidente che le varie scuole di pensiero psicologico da tempo si stanno interrogando e confrontando sui metodi di cura.
Decisivo, tuttavia, appare il cambiamento al livello dello spirito del tempo, per il passaggio da una società normativa — dove il conflitto era tra ciò era consentito e ciò che era proibito – a una società dell’efficienza, dove il conflitto si struttura al livello delle capacità e della abilità personali. Una società del narcisismo, seppure di tipo diverso rispetto a quello caratterizzante il contesto sociale della metà del secolo scorso. Negli anni 50-70 del Novecento appariva centrale l’esigenza di assegnare all’Io un ruolo chiave, dignità e autonomia. Oggi, diversamente, appare centrale il ruolo giocato dalla frustrazione dell’Io ideale (ciò che sono/non sono in grado di fare) che avvia interminabili processi compensatori e falsamente riparativi che allontanano non solo dalla consapevolezza dell’Io vero. L’utilizzo delle droghe, e principalmente di quelle attivanti (cocaina, amfetamine), al di fuori degli schemi propri alle condotte tossicomaniche, con finalità di efficienza performativa piuttosto che di evasione surrettizia, ne è esempio efficace. Si vive sottoposti a stimoli sempre più rapidi e intensi, con i media che propongono storie di vite speciali, emozionanti, eclatanti, per cui modello ideale è lo stile di vita delle persone che riescono, che in una società del successo “ce la fanno” a diventare ricche, famose, desiderate. Si cresce pensando che il destino riservi sorprese, emozioni, soddisfazioni, e si resta delusi dalla non-straordinarietà dell’esistenza o annichiliti dall’Ombra della vita.
La percezione di un tipo d’uomo mutante, già preconizzata molti anni addietro da Pasolini, sembra essere oggi realtà. E non solo sul piano psicologico (la mente), ma anche su quello anatomofisiologico (il cervello): la neuroplasticità come modificazione delle strutture nervose superiori sulla base di input diversi è un dato che costringe a interrogarsi se i nativi digitali (la generazione nata e cresciuta nell’era informatica) non siano appena una diversificazione culturale ma possano essere una variante antropologica. Nessuna sorpresa! I percorsi evolutivi che hanno condotto all’Homo sapiens sapiens sono ben noti, ma in un contesto storico e culturale segnato dal predominio della ragione, la mutazione rischia di inattivare sia i consueti metodi educativi sia le consolidate strategie terapeutiche. D’altro canto la liquidità di baumaniana memoria definisce il campo in cui gli esseri umani agiscono come un medium che si modifica prima ancora che il modo d’agire personale e sociale abbia la possibilità di consolidarsi e trasmettersi, esattamente come un corpo liquido che, per definizione, è impossibilitato a mantenere forma per un tempo protratto, salvo a cambiare stato e diventare solido, congelandosi.
Il rischio del pessimismo e della resa nichilista incombe. E’ possibile resistere solo accettando la sfida della post-modernità, raccogliendo quanto di non mutabile è possibile cogliere nell’esperienza umana: essere riconosciuti, essere amati, essere collocati in un orizzonte di senso e di significato. Essere affrancati dall’angustia di una vita piena di strepito e di furore, favola raccontata da un idiota che non significa nulla (Shakespeare).