Ai giorni nostri succedono cose impensabili fino a pochi decenni fa. Lo scorso mese di ottobre papa Francesco si è recato a Lund, in terra svedese, e qui ha partecipato a una commemorazione comune, tra luterani e cattolici, per il quinto centenario dell’inizio della Riforma protestante, sottoscrivendo poi una dichiarazione congiunta con il presidente della Federazione luterana mondiale. 



Ripetuti sono stati, nel frattempo, gli incontri che hanno coinvolto i patriarchi delle comunità dell’Oriente ortodosso, con momenti di dialogo fraterno, gesti di preghiera, approvazione di impegnativi documenti di intesa. Memorabile è rimasto, in particolare, l’abbraccio con il “caro fratello” Kirill, primate di Mosca, nell’isola di Cuba, il 12 febbraio 2016. In vista dell’estate, era stata progettata una visita nel martoriato Sud Sudan, condotta dal papa insieme al primate anglicano Justin Welby, arcivescovo di Canterbury. Solo le precarie condizioni di sicurezza del luogo hanno suggerito, come è stato reso noto il 30 maggio dal direttore della Sala Stampa del Vaticano, di rinviare il viaggio pensato fin dalla sua genesi in chiave ecumenica.



Però bisogna essere realisti: non tutti guardano con entusiasmo a questi sviluppi. Per molti si tratta quanto meno di cedimenti discutibili, esito, se non di un attacco deliberato al tesoro della tradizione, dell’ansia troppo remissiva di sanare fratture antiche saltando il necessario riconoscimento delle colpe accumulate e degli errori commessi (dagli altri, ovviamente). Per i critici più intransigenti delle volontà di apertura del cristianesimo del nostro tempo, la Chiesa cattolica detiene il monopolio esclusivo della pienezza della verità sulla fede. Dal loro punto di vista, il ritorno alla concordia non può che passare attraverso la cancellazione delle differenze che creano barriere, riassorbendole nell’uniformità di un corpo ecclesiale livellato sotto un unico centro monocratico di comando. La ricongiunzione delle membra disperse si riduce a un’annessione inglobante: chi ha abbandonato l’ovile della casa comune, gettandosi su strade sbagliate e sfigurando la sostanza dell’eredità avuta in consegna, deve recitare il suo solenne mea culpa e, cosparso il capo di cenere, rinnegare il “tradimento” compiuto, per introdursi in una nuova alleanza con la fonte da cui si comunica la grazia perenne di Cristo.



A sostenere questo atteggiamento spigolosamente antagonista non sono solo manipoli di nostalgici irriducibili: sono insegnanti rispettabilissimi, uomini di cultura, docenti universitari, religiosi ed esponenti del clero collocati anche in posizioni autorevoli. Basta navigare tra i siti della rete per essere messi continuamente di fronte alla cruda reviviscenza di uno spirito di intolleranza orientato alla riaffermazione vigorosa di valori giudicati irrinunciabili, magari in nome dell’amore appassionato per un’autenticità ritenuta seriamente a rischio, sotto assedio. In primo piano emerge l’attaccamento geloso all’integrità di una identità in pericolo, che si sente chiamata a blindare il suo contenuto dogmatico, le sue norme liturgiche e il suo patrimonio etico-giuridico per difendersi da ogni minaccia di snaturamento corrosivo.

Invece, per comprendere le differenze che si sono introdotte nell’universo cristiano dell’Occidente moderno, a seguito di metamorfosi secolari e per un gioco di concause estremamente complesse, bisogna assumere una posizione molto diversa, che discende prima di tutto da un approccio antropologico disponibile, da una coscienza di sé, prima e ben più che da un sapere fatto di formule acquisite e magari mai verificate risalendo alle loro basi giustificative. Si potrebbe dire che si deve prendere le mosse da uno spirito di carità applicato alla conoscenza storica: occorre partire dal desiderio di comprendere cosa è effettivamente successo, come mai si sono messi in moto tendenze e processi che hanno portato in certe direzioni, quali sono stati i contenuti reali veicolati dagli attori umani protagonisti delle vicende che hanno segnato il destino collettivo.

La molla del giudizio storico sulla diversità religiosa non può che essere un’apertura di credito: prima di respingere e condannare, provare ad aprirsi al desiderio di abbracciare l’altro da me così come mi si presenta, nella specificità irriducibile della sua condizione, che può contenere limiti mostruosi insieme a ricchezze invidiabili da cui ci siamo allontanati, sfumature e accenti di valore che abbiamo perso o semplicemente annebbiato lungo il cammino, e che anche noi possiamo recuperare per accedere a una larghezza di esperienza ancora più robusta e comprensiva. Per far crescere il dialogo con chi è stato a lungo solo un nemico da combattere, non ci si può che fondare sulla stima pregiudiziale a cui convertirsi pur provenendo da percorsi di cultura e mondi sociali radicalmente distanti. Ci vuole il privilegio tenace dato alle ragioni ultime del tentativo umano portato avanti dagli interlocutori con cui ci si confronta, per imparare a guardare diritti al cuore, più che al castello delle idee allineate in discorsi e formule di granitica contrapposizione confessionale.

Questo soprassalto di carità applicato alla storia del conflitto tra verità ed errore (tra ortodossia ed eresia: ma quanto mobili sono stati i confini sul filo dei secoli!) non può non riflettersi sul fronte dei rapporti che i credenti fedeli alla Chiesa di Roma si trovano oggi a stabilire con i seguaci delle varie correnti della Riforma protestante, staccatesi dal grembo della cristianità latina a partire dagli inizi del XVI secolo. È almeno dalla metà del Novecento (ma tanti è come se non se ne fossero ancora accorti) che questo processo di salutare revisione di mentalità è in atto. Maturando, ha ormai prodotto un profondo cambiamento di paradigma, che si è fatto strada almeno nelle parti più qualificate dell’intelligenza tanto laica quanto ecclesiastica. Si è approfondita straordinariamente la conoscenza reciproca tra mondo cattolico e mondo della Riforma. La Riforma, quando non ci si accontenta più di farne una caricatura superficiale o di colpirne solo alcune espressioni settoriali, è riconosciuta nella sua enorme varietà interna, nella sua ricchezza di germi embrionali, di evoluzioni contrastanti e di molteplici esiti compiuti, e dunque riletta a partire dalle sue fonti, dai programmi originari dei suoi fondatori, dalle reinterpretazioni che questi hanno conosciuto, ricollegandola sempre agli ideali, ai bisogni e alle aspettative nutriti da quanti se ne sono fatti, in cinque travagliati secoli di storia europea, paladini non di rado ardentemente creativi.

L’abbattimento dei muri dell’esclusione ha avuto l’effetto di rimettere al centro della scena il fulcro infuocato da cui la Riforma protestante, come ogni altro movimento di rigenerazione interna al cristianesimo, è scaturito. Certamente non si trattava della polemica contro il malcostume deplorevole e gli abusi incancreniti dell’istituzione ecclesiastica uscita malconcia dalla sua contraddittoria fioritura medievale. Alla sorgente primaria di tutto stava la ricerca di una risposta da dare al bisogno di salvezza dell’uomo, la scoperta di nuove strade per ancorare la sua esistenza alla certezza della misericordia donata da Dio sulla croce attraverso il sacrificio redentore di Cristo.

Ritornando al centro da cui la Riforma ha preso la sua vera origine (e mescolati con questa, ci sono stati certamente anche le cadute, i compromessi atroci), diventa possibile anche la purificazione della memoria. Gli errori e le deformazioni riduttive non sono stati solo quelli di cui si sono macchiati gli avversari che hanno strappato il tessuto della fede comune. Le colpe non vanno mai a senso unico. Proprio le incomprensioni e i fraintendimenti hanno portato a divaricare fino all’estremo le posizioni di dissidio. Lo scontro, i fulmini di condanna e i sogni di riconquista hanno costretto ogni parte a irrigidirsi nelle sue sicurezze, tagliando ogni ponte residuo di collegamento. La lunga, interminabile stagione della guerra a oltranza ci ha lasciato tutti impoveriti e ha minato alle radici la tenuta del cemento religioso come pilastro portante della civiltà dell’Occidente.

Per un approfondimento: Lutero, la Riforma e noi, “Linea tempo”, n. 12, 2017/5. Contributi di W. Neuer, F. Buzzi, M. Cassese, S. Rapposelli, J. Cottin, P. Mecarelli.