Non suscita meraviglia che per tracciare il profilo storico-culturale della Milano che fu sia necessario scartabellare tra le tele e i bozzetti di un pittore monzese, quel Mosè Bianchi (1840-1904) che fu ascritto al filone della Scapigliatura nelle arti, nonostante, tra tanti anche nobili compagni d’avventura, fosse quello tecnicamente più dotato e, forse, tradizionalista. 



Mosè Bianchi percorre tutto il travaglio generazionale dei suoi tempi. Giovanissimo al tempo delle guerre d’indipendenza e dell’anelito unitario che infiammava gli spiriti romantici, è tra i primi a cercare di darne testimonianza in pittura, ma anche tra i primi a sapersene distaccare, a mettere in questione la logica lineare e monodimensionale dei vincitori. Mosè Bianchi, inoltre, e a differenza di altri, di queste tematiche sente tutto il peso della disillusione perché nella guerra d’indipendenza combatte effettivamente, accettando anche la propaganda anticlericale del tempo, ma non rinnegando mai il registro della spiritualità e dell’estetica cristiana. Fino ai trent’anni almeno la più parte delle sue opere rimanda a temi biblici (“L’ombra di Samuele appare a Saul”) o addirittura a contenuti autenticamente pastorali e religiosi, spogliati di ogni vezzo filologico (“La comunione di San Luigi” per la parrocchiale di Sant’Albino, nella natia Monza). 



I primi segni di una più radicale presa di coscienza sui propri mezzi stilistici si vedono nella nota “I fratelli sono al campo”, del 1869, dove vengono rappresentate giovani donne nell’atto di una appassionata preghiera per la salvezza dei fratelli impegnati nella terza guerra d’indipendenza. Non c’è, però, provvidenzialismo spiccio e rimasticato, ma il dono di coniugare retorica romantica e gusto veristico, sui volti, sulle espressioni, sulle autentiche preoccupazioni delle famiglie dei soldati. Anche questo è pregio della sensibilità artistica di Bianchi. A differenza di quella parte di Scapigliatura che, soprattutto in prosa e in poesia, coltiva il maledettismo come costante alienazione dal proprio spazio e dal proprio tempo, il pittore monzese partecipa del clima culturale della sua epoca, che intorno agli anni Settanta coltiva pure il ritorno di una vena neo-leziosa (“La pittrice” e “Una lezione di musica”, in primo luogo, 1874-1875). 



La grande qualità di Bianchi gli consente di abbracciare il meglio della temperie culturale del periodo: i paesaggi del naturalismo lombardo, che reclamano la loro presenza nella realtà; le condizioni di vita estreme di un composito disagio sociale, che coinvolge accattoni, contadini e lavandaie, sull’asse tra metropoli e sobborghi agresti; la persistente natura salvifica dell’exemplum nella fede. 

Come l’amante riflessivo che è tutto propenso ad ammirare il corpo nudo dell’amata, quasi in estasi, i lavori migliori della fase matura di Bianchi sono però le belle vedute dedicate a Milano. Scenari che sembrano creati appositamente per lumeggiare i motivi ispiratori di tutta l’opera pittorica del maestro monzese. Negli anni dal 1890 in poi, in tempi brevissimi, vedono luce “Vecchia Milano”, coi suoi toni foschi, qua e là rischiarati dalle luci febbricitanti della metropoli operosa, l’elegiaca “Milano sotto la neve”, e la dolente “Periferia milanese lungo il Naviglio”. Se i temi più vissuti e avvertiti della fine del XIX secolo hanno un testimone, quello è Bianchi. Se a Milano serve il narratore d’eccellenza per quella fase di transizione, sospesa tra ingenuità veristica, riscoperta rurale e marginalità urbana, il pennello di un monzese ci dona tutto quel che ci serve: il diario, la cronaca, la coscienza, la trasfigurazione. Dalle bettole del Naviglio fino al cuore dell’Accademia.