La notizia da tempo sotto traccia è che il capitalismo fa acqua da tutte le parti: troppi “magheggi” che rendono instabili le economie, e soprattutto troppa disuguaglianza. C’è chi giura che tra le sue falle ci siano difetti strutturali che ne decreteranno se non la fine, una sua necessaria radicale trasformazione.
Ma mentre cambiamenti di tale portata seguono il loro lento e incerto corso, cosa possono fare i lavoratori quando i proprietari decidono di abbassare le serrande?
In Italia esistono diverse forme di ammortizzatori sociali, strumenti di sopravvivenza in momenti drammatici della vita, grande conquista civile ottenuta a fronte di lunghe lotte. Eppure accade che molti lavoratori si ribellino a quel destino che pur appare inevitabile, e rilancino: si riuniscono in cooperative e acquistano le aziende in crisi o fallite per cui prima lavoravano. Una rivoluzione copernicana nel set di valori con cui siamo abituati a concepire il lavoro.
Quello cui danno vita è una “impresa recuperata” (che gli anglosassoni chiamano working buyout). A seguito del protrarsi della crisi economica, il fenomeno nel nostro paese continua a suscitare interesse e a crescere. Un illuminante volume fresco di stampa di Paola De Micheli, Stefano Imbruglia e Antonio Misiani, Se chiudi ti compro (Guerini e Associati), racconta la storia di dieci imprese recuperate, nel contesto della crisi economica italiana e del dramma della disoccupazione.
Papa Francesco ha parlato di queste cooperative come di un esempio di “economia popolare che emerge dall’esclusione e, a poco a poco, con fatica e pazienza, assume forme solidali che le danno dignità”.
In Italia ci sono 217 imprese recuperate, con 7.627 lavoratori occupati. Sono presenti nelle regioni con più marcato radicamento cooperativo, in testa l’Emilia Romagna. Non si tratta di fuochi di paglia: secondo il Cfi (Cooperazione Finanza Impresa) il tasso di sopravvivenza è dell’81 per cento (l’Istituto di ricerca europeo sulle cooperative e sulle imprese sociali – Euricse, aveva invece valutato che, a livello europeo, tra le aziende recuperate tra gli anni 80 e 90, la sopravvivenza è solo del 36 per cento).
Una di queste cooperative è quella nata a Padova nel 2015 da un’azienda affermata nel campo della legatoria. Quando fallisce per l’incapacità di adeguarsi ad un mondo che cambia troppo radicalmente, uno dei proprietari, Giorgio Zanardi, si suicida. Sembra la fine di tutto, dell’impresa e dei posti di lavoro di 105 persone che ormai da qualche mese non percepiscono lo stipendio. Il manager chiamato a gestire la difficile situazione cerca di salvare il possibile: i buoni rapporti commerciali con i clienti, le competenze e i lavoratori. Presto si rende conto però che l’unica possibilità concreta per andare avanti è dare l’azienda ai lavoratori, settanta dei quali accettano la proposta. Vengono così coinvolte Legacoop e la politica locale, in particolare la provincia di Padova, che rassicura il sindacato sul fatto che i lavoratori non saranno costretti a pagare i debiti pregressi. Nel 2015 il Gruppo Editoriale Zanardi diventa Cooperativa Lavoratori Zanardi che oggi ha 32 soci, 7 dipendenti e un presidente. I lavoratori, seppur riassunti con la stessa qualifica, oggi percepiscono uno stipendio più basso, mediamente un operaio guadagna il 10 per cento in meno di prima, mentre alcune fasce impiegatizie hanno subìto una riduzione del 20 per cento. Il presidente e la sua vice prestano gratuitamente la loro opera.
Che non si tratti di un semplice cambio di ragione sociale si capisce da quanto accade nel primo anno: il nuovo spirito che anima i soci li ha resi più coinvolti, spingendoli a creare soluzioni per aumentare la produttività delle macchine. Grazie a ciò nel 2016 il fatturato preventivato viene rispettato e la cooperativa può guardare al futuro con più fiducia.
“È la soddisfazione personale che fa la differenza. Il mio lavoro qui è più semplice perché gli altri essendo soci sono molto più collaborativi”: ecco come uno dei protagonisti spiega il segreto della maggiore efficienza di questa impresa. Mentre un altro va al cuore della motivazione personale: “La voglia di poter dire a mio figlio: un giorno tuo padre ha fatto questo”.
Altre testimonianze spiegano la differenza tra l’operato di un presidente di una cooperativa e quella di un imprenditore: in una cooperativa il legame con gli altri soci è più stringente e l’impegno a utilizzare il contributo di tutti rende la sua funzione ben diversa. Una cooperativa non va pensata però come una “comune”, perché al suo interno esiste una stratificazione di diverse competenze. Quello che cambia è il clima di collaborazione, di coinvolgimento, di responsabilità di tutti, molto più ampia.
Quella delle imprese recuperate è un’idea che appare rivoluzionaria ma non è affatto nuova. Prende la scena mondiale a seguito del tracollo economico del 2001 in Argentina. In Italia la prima esperienza di questo tipo risale al 1978 e riguarda Il Telegrafo, testata livornese diventata poi Il Tirreno. Nel 1976 la proprietà decide di chiudere i battenti licenziando in tronco i suoi 208 dipendenti. Giornalisti e tipografi non ci stanno: il giornale e il lavoro di tanti livornesi sono un patrimonio locale che va salvaguardato. Insieme al direttore, per diciotto mesi il giornale viene portato avanti in autogestione, riducendo stipendi, adattando mansioni e turni al bisogno. Tutta la cittadina, dagli operai delle fabbriche circostanti che s’impegnano a distribuire il giornale, al sindaco, al vescovo, sostengono l’iniziativa. Riuniti in cooperativa, i lavoratori spingono per acquistare la testata, mentre la proprietà temporeggia. Sarà il sindaco Alì Nannipieri a sbloccare la situazione requisendo il giornale, grazie una legge che gli consente di disporre di una proprietà privata per gravi necessità pubbliche. Quando nel 1978 il gruppo l’Espresso compra il giornale e lo stabilimento, assume i giornalisti, mentre i tipografici costituiscono una nuova cooperativa, la Cooperativa Libera Stampa.
Qualche anno dopo le vicende de Il Telegrafo, nel 1981, viene emanata la legge che regola queste figure d’impresa. A proporla il ministro Giovanni Marcora. Le sue parole di allora ne chiariscono profeticamente il valore anche per i nostri giorni: “Questa modalità del produrre dello strumento cooperativo, restituendo ai singoli lavoratori dipendenti una loro identità, consente di non abbandonare all’emarginazione, alla disoccupazione e in definitiva alla disperazione ampi strati di lavoratori che rappresentano un patrimonio di cultura, di intelligenza e di capacità produttiva, chiamandoli a una diretta e sentita assunzione di responsabilità nei confronti della propria azienda che deve tornare ad essere vista come un bene comune, patrimonio di tutti”.
I tempi sono cambiati, un sindaco come Nannipieri probabilmente oggi passerebbe dei guai giudiziari. E non potrà essere certo questa la soluzione a tutti i mali dell’economia italiana, ma vista la prospettiva di uno sviluppo senza occupazione, le imprese recuperate possono rappresentare “un valido argine alla desertificazione industriale e alla tutela dei posti di lavoro”. Esse sono sopratutto un segno importante di fiducia, di voglia di non arrendersi di “lavoratori che hanno cambiato modello e punto di vista”, “figli di quell’Italia silenziosa e operosa, fortunatamente ancora maggioritaria”, come viene sostenuto nel volume citato. Gli autori paragonano i protagonisti di queste imprese ai gregari in una gara ciclistica: donne e uomini “ignoti al grande pubblico”, che “con il loro lavoro quotidiano e anonimo, con la loro voglia di fare e di pedalare”, “si sobbarcano la fatica della tappa per mettere il capitano nelle condizioni di vincere”. Un gioco di squadra in cui tutti conquistano qualcosa.