L’istante — ha ricordato Domenico Quirico nel suo recente saggio Il tuffo nel pozzo (Vita e Pensiero, 2017) — è la materia con cui ogni giorno i giornalisti sono chiamati a confrontarsi. Ed è grazie ad esso che chi fa questo mestiere è ricondotto costantemente all’umiltà del proprio lavoro, alla consapevolezza della precarietà dei propri scritti.
Ma come si fa ad osservare l’istante, senza sperimentare il desiderio di trattenerne i segni che ne indichino la permanenza nel tempo e di raccontarlo? Il fatto, il singolo fatto è come un pozzo dove possiamo o affacciarci per vedere riflessa la nostra immagine o tuffarci per osservare cosa si è depositato nel suo fondo e portarlo in superficie. Solo in questo secondo caso il giornalista può diventare lo “storico dell’istante”, che non si ferma al rumore della superficie degli eventi, ma che piuttosto indaga ciò che è oltre l’apparenza. Anche l’istante, allora, diviene la manifestazione di un brandello della realtà personale o sociale. Il tassello di un mosaico. Tanti tasselli, a loro modo unici, servono a dare il quadro di un’epoca, il profilo di una personalità. E la notizia non si perde nel rumore dell’informazione di facciata, ma diviene storia. Permane. Per questo motivo gli archivi dei giornali risultano luoghi privilegiati per ricostruire la storia contemporanea di una città, di una regione, di un Paese.
Quelli dei quotidiani siciliani, in particolare, sono una fonte preziosa della memoria collettiva della comunità isolana. Nell’archivio de La Sicilia, da poco digitalizzato e aperto alla consultazione pubblica, si conservano più di 70 anni di storia, con quasi un milione di pagine e circa 4 milioni di articoli consultabili.
Nel 1951 Truman Capote pubblicò su The Harper’s Bazaar un racconto ambientato a Taormina dal titolo “A House in Sicily”. In quel testo, fra l’altro, lo scrittore statunitense riferisce come apprese della morte del bandito Giuliano. “Un pomeriggio — scrive Capote — mentre rientravo, si mise a piovere. Non era una gran pioggia ciononostante le strade erano deserte, non si vedeva in giro anima viva, finché non arrivai presso i tabacchi: una folla era radunata lì davanti, dove i giornali dai titoli strillanti, svolazzavano nella pioggia. (…) Due ragazze entrarono nello spaccio e ne uscirono con copie del giornale La Sicilia, sulla cui prima pagina campeggiava una foto del bandito ucciso: proteggendo i loro giornali dalla pioggia, le ragazze si misero a correre, tenendosi per mano, slittando sulle selci bagnate”.
L’inviato de La Sicilia Livio Messina era stato il primo cronista a raggiungere il luogo in cui il bandito era stato ucciso, e aveva prodotto un reportage che rimane fondamentale ancora oggi per capire cosa avvenne in quei giorni nelle campagne di Castelvetrano. Per rileggere quel testo, e gli altri che ne seguirono, basta un click. Possiamo accostarci alla storia attraverso gli articoli dei giornali, a patto che questi siano connotati dall’onestà e dalla profondità dello sguardo di chi racconta.
Quando, per esempio, Luigi Sturzo cominciò a pubblicare il suoi commenti su La Sicilia, l’Autonomia siciliana muoveva i primi passi. Eppure quei testi riletti a distanza di decenni offrono oggi uno strumento prezioso per capire le speranze e i sogni di quell’epoca e le realizzazioni mancate. Ai suoi discepoli il fondatore del Ppi raccomandava con tenacia un’idea di politica fatta di progetti concreti in risposta a bisogni altrettanto concreti. Non proclami, dunque, né rivendicazioni di privilegi o di sussidi dallo Stato. I politici siciliani, per Sturzo, dovevano avere le carte in regola (lo slogan fu poi fatto proprio dal presidente Piersanti Mattarella) per poter trattare a testa alta con Roma e con gli organismi internazionali.
Spostandoci su un altro settore, quello letterario, possiamo oggi rileggere gli articoli scritti da Gesualdo Bufalino o da Leonardo Sciascia per La Sicilia negli anni Ottanta e riscoprire il rapporto fra parola e informazione, fra letteratura e giornali. “Perché si scrive?”, si chiedeva Bufalino in un articolo pubblicato il 21 agosto 1983. E fra le tante risposte che lo scrittore comisano forniva ne tratteniamo due: “Si scrive per ricordare (…) e si scrive per battezzare le cose, chi le nomina, le possiede”. Far permanere l’istante è uno dei desideri umani più profondi. Ricordarlo, dargli nome, raccontarlo attraverso articoli, inchieste, analisi, interviste fa parte dei nostri tentativi, sempre parziali, per compiere l’impresa.
Di recente sono stati raccolti in volume (“Il mio Novecento”, Domenico Sanfilippo editore, 2017) gli articoli pubblicati nell’arco di 50 anni da un fuoriclasse del giornalismo italiano, Nino Milazzo, già condirettore de La Sicilia e vicedirettore del Corriere della Sera. In quegli articoli è possibile cogliere la storia del Novecento attraverso gli eventi più significativi raccontati dall’autore in presa diretta e con onestà intellettuale. La grandezza di un giornalista, come nota Ferruccio de Bortoli nella prefazione al libro di Milazzo, sta nel non polemizzare coi fatti “se questi si allontanano dalle proprie previsioni”. Solo così le singole tessere del mosaico delle notizie possono contribuire a fornire un quadro originale di un periodo storico. E gli archivi digitali dei giornali possono costituire un interessante materiale documentario per la ricerca scientifica e per una didattica innovativa.