Sembra che sia uno dei motivi ricorrenti della cultura postmoderna l’idea di uomo come elemento disturbatore della natura, unico essere a non avere un habitat specifico e quindi prevaricatore dell’habitat di altre specie. Questa visione è stata recentemente proposta dal ministero ai maturandi: la poesia di Caproni data da analizzare come prima traccia, infatti, dopo l’accorata difesa di diverse specie concludeva “come potrebbe tornare a essere bella / scomparso l’uomo / la terra. Tale visione antiumana è in contrasto con l’immagine dell’uomo sia ebraico-cristiana sia pagana. Dice il primo racconto della creazione: “Facciamo l’uomo a nostra immagine, secondo la nostra somiglianza: domini sopra i pesci del mare e sugli uccelli del cielo, sugli animali domestici, su tutte le fiere della terra e sopra tutti i rettili che strisciano sopra la sua superficie”. Nell’Antigone di Sofocle troviamo una grandiosa immagine dell’uomo, di cui “nulla è più straordinario“: domina il mare, lavora la terra, conquista gli animali e li doma… 



Molta parte della riflessione successiva insiste sulla posizione privilegiata dell’uomo, in una prospettiva finalistica. In diversi passi dei Memorabili di Socrate raccolti da Senofonte, Socrate elenca all’interlocutore Aristodemo tutti gli aspetti positivi dell’uomo, tanto che l’altro conclude: “Mi sembra proprio, Socrate, che gli dèi si prendano molta cura degli uomini“. 



Una simile concezione provvidenziale sarà poi ripresa dallo stoicismo: Cicerone, nel De natura deorum, affida allo stoico Lucilio una lungo discorso sulla centralità dell’uomo nella natura. A sua volta il poeta Ovidio, nel proemio delle Metamorfosi, conclude la sua visionaria narrazione dell’origine della natura con queste parole: “Mancava ancora un vivente più sacro di questi e più capace di profondi pensieri e in grado di dominare su tutti gli altri: nacque l’uomo, sia che l’abbia fatto con seme divino quell’artefice, perché fosse l’inizio di un mondo migliore, sia che la nuova terra, da poco separata dal profondo etere, conservasse elementi della parentela celeste: il figlio di Giapeto, mescolandola con acque pluviali, la foggiò a somiglianza degli dèi ordinatori, e mentre tutti gli altri esseri abbassano il capo a terra, diede all’uomo un viso rivolto in alto e ordinò che guardasse il cielo e levasse gli occhi alle stelle. 



Nei primi secoli del cristianesimo la lezione veterotestamentaria e le fonti pagane saranno riutilizzate dal padre cappadoce Gregorio di Nissa e dal vescovo Nemesio di Emesa (l’Homs siriana dei nostri giorni) nelle loro opere dedicate all’uomo. Così dice in particolare Nemesio: “Chi dunque potrebbe meravigliarsi a sufficienza della perfezione di questo essere? Esso collega in sé ciò che è immortale con ciò che è mortale e congiunge l’irrazionale col razionale; porta nella sua natura l’immagine di tutto quanto il creato, per cui è stato detto anche microcosmo; è stato ritenuto degno di così grande provvidenza da parte di Dio, che per lui sono state fatte tutte le cose, quelle di adesso come quelle future; per lui Dio si è fatto uomo; sfugge alla corruttibilità e diventa immortale… Oltrepassa i mari, penetra nel cielo col suo pensiero, scruta i moti e le distanze e le misure degli astri, trae vantaggio dalla terra e dal mare, guarda con disprezzo le fiere e i mostri del mare, dispone ogni conoscenza, arte e metodo.

I pagani riconoscono nell’uomo la possibilità di scegliere il male: “ora va verso il bene, ora verso il male” dice al termine dell’elogio dell’uomo Sofocle, ponendo come rischio insito nella grandezza umana quello che è in realtà il suo maggiore privilegio, cioè la libertà. E’ certo però che il rapporto fra uomo e natura comporta un uso corretto della libertà: nel mito tale rapporto è simboleggiato dal doppio volto degli dèi della natura, del mare, della fauna selvatica, delle messi, della vite, dèi propizi con chi li onora ma vendicativi con chi li rifiuta o li viola. Il dio pagano non conosce perdono, e il dio della natura più di ogni altro: chiaro segno del fatto che la libertà dell’uomo di operare nella natura non è assoluta, richiede conoscenza e attenzione, senso del limite e rispetto. 

E’ soprattutto nei miti legati a Dioniso che il doppio volto di dono e punizione emerge. Dicono le sue seguaci nelle Baccanti di Euripide: “O felice colui che caro agli dèi ne conosce i misteri, che la sua vita rende pura e santa partecipando al tìaso con anima redenta, e va sui monti cantando a Bacco, purificato ai suoi mistici riti. E più avanti: Il dio figlio di Zeus prova piacere da una lieta mensa ed ama la pace che dona il bene agli uomini e li allieta di figli. Egli ugualmente al povero ed al ricco dà del vino l’oblio che fa scordare le pene. Ma per chi lo disconosce c’è la follia, il delitto e l’esilio, in un crescendo di dolore: per il peccato contro il dio pagano della natura non c’è misericordia né redenzione. 

Sia l’autore del Genesi sia i Padri cristiani  riconoscono che il peccato dell’uomo ha corrotto il progetto originario rompendo l’armonia fra uomo e natura, fra l’uomo e la terra, fra l’uomo e la sua stessa vita; e tuttavia, come si vede dal passo di Nemesio riportato, il finalismo non è andato perduto, l’uomo ha in sé capacità e potenzialità, soprattutto per lui Dio si è fatto uomo.