A Roma un conducente della metropolitana non resistendo al pasto di mezzodì, riparte senza guardare nello specchio retrovisore, trascinando così per decine di metri una viaggiatrice che adesso, con diverse fratture ed un polmone perforato, lotta fra la vita e la morte. A San Benedetto del Tronto una giovane madre di 27 anni cade da una giostra estrema, di quelle che rientrano nella categoria dei “giochi adrenalinici”: il volo di venti metri le sarà fatale. Nelle stesse ore in un importante resort turistico sul Mar Rosso, come in un film dell’orrore, un ragazzo di ventisette anni dall’aria apparentemente innocua, emerge dall’acqua ed accoltella un gruppo di donne tedesche mentre prendevano il sole sulla spiaggia: quattro sono gravemente ferite, due non torneranno più a casa. 



È evidente a chiunque come queste tre vicende non abbiano nulla in comune: né il contesto né le cause. L’unico elemento che le tiene insieme è dato dalla scansione temporale: tutte e tre le vicende scorrono lungo i titoli del telegiornale delle 13,00, lasciando ciascuno di noi sconvolto. Sono storie certamente diverse, ma tutte caratterizzate da morti e sofferenze inutili, tutte e tre prodotte dalla stessa tavolozza dello sciocchezzaio umano. In tutti e tre i casi ci sono infatti delle vittime innocenti colpite, ferite o uccise, al di fuori di qualsiasi relazione possibile con l’aggressore o con il responsabile. Sono tutte vittime al di fuori di qualsiasi logica, ma non certo al di fuori del degrado o dell’orrore che, secondo i casi, fa loro da scenario.



Nel caso della metropolitana di Roma, il contesto è quello di un’indecenza quotidiana dei trasporti urbani, risultato di una metropoli oramai collassata e fuori controllo, dove chi lavora deve raddoppiare fatiche ed orari di percorrenza per raggiungere i luoghi di lavoro, tra attese infinite, mezzi pubblici deteriorati e sovraccarichi, nell’oramai più squallida indifferenza e desolante rassegnazione. 

Nel caso di San Benedetto del Tronto lo scenario è quello dei parchi di divertimento dove si praticano le sciocchezze più estreme, nella ricerca di emozioni sempre più ridicole e prive di qualsiasi senso. 



Nel caso del resort egiziano è invece la ridicola e orribile “saga dei coltelli” proclamata dal più orrido fanatismo religioso, a trasformare un ragazzo di ventisette anni in un ridicolo quanto letale omicida, assassino di donne straniere. 

Difficile non vedere in questi episodi che tre volti diversi di uno stesso stupidario umano fuori controllo, dove l’indifferenza e la noncuranza nel primo caso, l’assenza di controlli unita alla volontà di performances sempre più estreme nel secondo, il delirio omicida come sbocco alla propria personale irrequietudine nel terzo compiono il massimo male possibile, portando la vita di donne innocenti sull’orlo dell’irreparabile o semplicemente decretandone la fine. 

Sorgono allora, rapide, le nostre strategie di emergenza: intercettare e punire le gagliofferie, proibire i divertimenti a rischio, radere al suolo (possibilmente spargendo il sale sulle rovine) le centrali del terrore, riducendo all’impotenza i loro folli declamatori. Ma per quanto la mente corra ai ripari, trovando ricette per limitare un tale mesto scenario, sperando che qualcosa riponga ordine in un universo così disastrato, il pensiero corre ai figli, all’universo che stiamo per lasciar loro in eredità. 

“Quasi sempre — scrive Kant in Riflessioni sull’educazione — i genitori educano i loro figli solo nell’obiettivo di disporli a vivere nel mondo attuale, per quanto questo sia traviato. Dovrebbero invece dare loro un’educazione migliore, affinché nell’avvenire, possa scaturirne uno stato migliore“. Si tratta di una frase ovvia nella sua linearità, ma che letta alla luce di questi fatti, suscita un imbarazzante silenzio. Possiamo accostarla a quella di Goethe posta a titolo del prossimo Meeting di Rimini: “Quello che tu erediti dai tuoi padri, riguadagnatelo, per possederlo”. Entrambe queste frasi sembrano provenire da un’altra epoca, oramai definitivamente conclusa, tanto grande ci appare il divario tra la linearità di quel mondo, nel quale una simile saggezza era esprimibile, e la colossale deriva che abita il nostro presente. Un presente per il quale non c’è nulla da apprendere dai padri — la modernità contemporanea non sa che farsene — ed al quale non sembra possibile apportare nessun miglioramento. Infatti, è proprio perché non abbiamo nessuna ricetta per assicurare ai nostri figli uno “stato migliore”, che ci sembra di non poter fare altro che preoccuparci unicamente di insegnar loro a vivere in questo, “per quanto sia traviato”.

Eppure si tratta di un drammatico e colossale errore. Di una vera e propria dimissione dalla funzione educativa. 

Infatti i nostri figli non hanno bisogno di strategie per aggirare gli ostacoli e trarsi fuori d’impaccio, non hanno bisogno di scorciatoie. Nessuno viene al mondo unicamente per adattarsi, ma porta con sé un bisogno di vita piena, un “bisogno di città e di memoria” come dice Alain Finkielkraut commentando Péguy per il quale ciò che conta veramente è “il pane e il libro”: l’essenziale per vivere una vita fisica e l’essenziale per abitare una città e una storia, quindi vivere una vita morale

La legittima ambizione dei nostri figli riguarda qualcosa di ben più profondo del semplice adattarsi: essi hanno diritto ad un progetto buono per una vita da costruire, hanno il diritto a costruirsi la loro speranza di “vita buona”. E per farlo hanno bisogno — drammaticamente bisogno — di conoscere e comprendere l’eredità che sarà lasciata nelle loro mani, che lo vogliano o meno. Hanno bisogno di quest’eredità da riconoscere, far crescere ed arricchire, perché risiedono in questa le piste e gli sforzi dei nostri padri per superare e vincere gli stupidari che anche loro, a loro volta e prima di noi, hanno dovuto affrontare nella loro epoca. In questa eredità c’è la ricerca della verità, della giustizia e del bene dei cui percorsi e dei cui risultati i nostri figli hanno profonda (e, ripeto, drammatica) necessità.

La nostra funzione educativa non può allora risolversi solo in una serie di “consigli per gli acquisiti”, di strategie di sopravvivenza, di astuzie per conseguire la propria convenienza. Il nostro dovere deve essere invece proprio quello di aiutarli in quest’impresa di costruzione della vita buona e di quest’acquisizione dell’eredità del passato che ad una tale costruzione è indispensabile. Per realizzare entrambi gli obiettivi si tratta allora — come ricorda Chantal Delsol nel suo Un personnage d’aventure. Petite philosophie de l’enfance — di consegnare loro una passione per la verità, quella stessa passione che ha animato un intero processo di civilizzazione, allenandoli alla costante ricerca di quest’ultima. 

Solo con l’acquisizione di una tale passione è possibile renderli curiosi delle opere che essa stessa ha realizzato nel passato, alimentando così il desiderio di acquisire quelle eredità che questa stessa ricerca della verità ha prodotto e che sono loro indispensabili. Solo così appare ragionevole invitarli a proseguire il cammino, migliorando e ricostruendo, rimettendo in ordine e riprogettando quanto troveranno rimesso da noi nelle loro mani. Solo così non verranno sommersi dal proliferare di tanta cialtronesca miseria, dal dilagare di tanto vuoto e dal tracimare di tanto delirante orrore.