Oggi, 19 luglio 2017, ricorre il 25esimo anniversario dell’omicidio del giudice Paolo Borsellino e dei cinque agenti della scorta. Abbiamo chiesto alla giornalista palermitana Alessandra Turrisi, che ha vissuto in prima fila tutti gli avvenimenti di questi venticinque anni ed è autrice de Paolo Borsellino. L’uomo giusto (San Paolo 2017) un ricordo e un giudizio sul giudice e sugli avvenimenti successivi alla sua morte.
Ci racconti quel giorno, il 19 luglio del 1992. Cosa ricorda?
Come molti palermitani, ricordo perfettamente dove mi trovavo e cosa stavo facendo nel preciso momento in cui l’autobomba scoppiò in via D’Amelio, 57 giorni dopo la strage di Capaci, cambiando per sempre la storia d’Italia e la vita di molti di noi. Avevo diciotto anni e in quel torrido pomeriggio di domenica stavo dormendo nella casa di campagna dei miei genitori, quando mio fratello Alberto spalancò la porta gridando: “Hanno ucciso pure Borsellino”. Mi crollò il mondo addosso, capii in quel momento che la storia stava passando da Palermo e l’avrebbe trasformata per sempre. Ne ebbi la certezza quando, dopo le ferie d’agosto, tornando a Palermo, vidi le camionette dell’esercito piene di ragazzi in mimetica. Era l’operazione Vespri Siciliani, presidi militari a ogni angolo di strada e l’impressione di essere in un clima di guerra, con un nemico invisibile, infiltrato e stragista.
Conosceva personalmente il giudice?
Lo avevo incontrato, o meglio ascoltato dal vivo, una sola volta, nel giugno 1992, quando trovò il tempo per incontrare i ragazzi delle scuole, pochi giorni prima che andassimo tutti in vacanza. Una mattina dei primi di giugno, il procuratore aggiunto piombò al liceo Umberto I, la scuola che hanno frequentato i suoi figli Manfredi e Fiammetta, dove lui era andato tante volte a parlare coi professori. I ragazzi entrarono a scuola come sempre, ma non andarono in classe. I professori li indirizzarono nella palestra all’aperto, un grande campo di basket all’interno della scuola dove erano state sistemate centinaia di sedie, in ordine. Sul tetto c’erano poliziotti armati. Arrivò quel giudice tante volte visto in tv, era un volto familiare. Il suo migliore amico era stato ucciso due settimane prima e lui era lì per noi. Di quell’incontro non esiste nessun documento, né una foto, né un filmato, né una registrazione. Ricordo di aver provato un sentimento di immensa gratitudine. Per quell’uomo che sapeva di essere vicino alla morte e che aveva deciso di trascorrere così le sue ultime ore. Voleva lasciare la sua eredità a noi. Non lo capii subito. Il 19 luglio tutto mi fu più chiaro.
In questa ricorrenza lei ha pubblicato un libro dal titolo: Paolo Borsellino. L’uomo giusto. Perché uomo giusto? Cosa era la giustizia per Borsellino?
In tutte le testimonianze raccolte, molte delle quali inedite, emerge la figura di un uomo che mostra a tutti lo stesso volto, che sa essere sé stesso in qualsiasi situazione, in compagnia di un alto magistrato e di un amico, di un criminale e di un testimone di giustizia, tenendo sempre presente il rispetto della persona umana. Paolo Borsellino è un uomo integro, con le sue passioni e i suoi difetti, ma che crede profondamente nella verità e nella giustizia, tanto da portare questo suo impegno, che chiamerei missione, fino alle estreme conseguenze.
Un capitolo del suo libro è intitolato: “Questa era la sua fede”. Che idea s’è fatta dell’esperienza religiosa di Borsellino?
Direi che la fede è il dato unificante della sua vita. Prendendo in prestito le parole di don Cosimo Scordato, Borsellino riesce “a tenere uniti due aspetti della sua vita apparentemente così lontani, ma invece vicinissimi. Sa essere un picciuttunazzo (un ragazzone scherzoso, ndr), che diverte con tutta la sua verve, e insieme un uomo di preghiera, con un’interiorità profonda”. E, secondo un amico magistrato laico come Diego Cavaliero, la fede lo ha “aiutato in quello che è il concetto di morale, che va anche al di là della religione, ma individua ciò che è giusto o sbagliato in senso assoluto”.
E’ noto l’attaccamento che Borsellino aveva per la famiglia. Come era Borsellino marito e padre?
Quella alla paternità per Paolo Borsellino era una vocazione. Si tratta di una paternità esercitata nei confronti dei tre figli che adorava, ma anche nei confronti di tutti coloro che incontrava, dei colleghi magistrati più giovani, delle due testimoni di giustizia che trovarono in lui un sostegno prezioso, Rita Atria e Piera Aiello. Sapeva essere affettuoso, attento, protettivo, ma anche molto autorevole.
In questi 25 anni la famiglia, la moglie recentemente deceduta, i tre figli, il fratello Salvatore, hanno attraversato numerose vicissitudini che li hanno portati spesso sotto i riflettori. Come giudica il loro comportamento?
Non è facile essere figlio, moglie, fratello di un uomo, per di più esponente delle istituzioni, ucciso in una strage dai contorni ancora non chiariti, malgrado siano trascorsi 25 anni e si siano celebrati numerosi processi. Pensare che non esista ancora una sentenza giudiziaria che individui i responsabili materiali della strage di via D’Amelio è incredibile. Sapere che sono state tenute in carcere per anni persone condannate all’ergastolo e che non avevano nulla a che fare con questo eccidio sconvolge e indigna. Allora non mi sembra che si possano esprimere giudizi sui familiari del giudice Borsellino, ma soltanto guardare a loro con profondo rispetto.
Nel suo libro ha intervistato persone per così dire di secondo piano, cioè poco note all’opinione pubblica. Quale è quella che più l’ha impressionata?
In generale mi ha colpito il pudore con cui queste persone hanno custodito per 25 anni il loro ricordo unico e personale del proprio rapporto con Borsellino, come un tesoro prezioso. Mi ha molto affascinato la testimonianza del giudice Diego Cavaliero, perché non è solo il ricordo di un giovane collega, bensì il racconto dettagliato di un rapporto nato in ufficio e diventato quasi familiare, oserei dire filiale. Straordinaria testimonianza della capacità del dottore Borsellino di riuscire a creare relazioni profonde con coloro che incontrava.
Più volte nel suo libro ricorre la frase: “Paolo non è morto” oppure: “Paolo è vivo”. Che significa dopo 25 anni? Come si fa a tenere viva la memoria di un uomo come Borsellino e a cosa deve servire?
Tenere viva la memoria significa non tradire l’eredità che un uomo come Paolo Borsellino ha lasciato a ogni cittadino: compiere il proprio dovere e tenere la schiena diritta sempre, anche quando la strada più comoda sarebbe un’altra, anche se questo rigore morale può non coincidere con le proprie ambizioni. Nell’ultima intervista rilasciata a Lamberto Sposini nel giugno 1992, Paolo Borsellino dice: “La sensazione di essere un sopravvissuto e di trovarmi in estremo pericolo è una sensazione che non si disgiunge dal fatto che io credo ancora profondamente nel lavoro che faccio, so che è necessario che lo faccia, so che è necessario che lo facciano tanti altri assieme a me. E so anche che tutti noi abbiamo il dovere morale di continuarlo a fare senza lasciarci condizionar dalla sensazione o financo, vorrei dire, dalla certezza che tutto questo può costarci caro”.