“Mediterraneo, mare di cristallo” è il taccuino di un viaggio marittimo-letterario. Nell’estate del 2005, nell’Anno del Mediterraneo indetto dalla Conferenza euro-mediterranea dei ministri degli Esteri dei paesi della Comunità Europea, l’autore ha fatto un viaggio lungo il Mediterraneo grazie a una borsa di studio di una fondazione italo-francese dedicata alla memoria di Marc de Montalembert. Ne è nata un’opera intesa come amalgama di parole, emozioni, esperienze, di mondi lontani e vicini, di epoche passate e presenti, collegate da ponti e legami letterari. Ha scelto romanzi o poesie ambientate in città che si affacciano sul Mediterraneo ed è andato a vedere di persona quelle città, guardandole con gli occhi del lettore e del viaggiatore. L’io narrante cerca una “città invisibile”, costruendola con le citazioni di alcuni scrittori, lungo tre rotte. A Occidente: Milano, Genova, Nizza, Marsiglia, Sete, Barcellona e Gibilterra; al Centro: Roma e Napoli; A Oriente: Itaca, Cefalonia, Corinto, Epidauro, Atene, Istanbul, Rodi. L’autore ringrazia sentitamente la Fondazione Marc de Montalembert che si “propone di incoraggiare l’apertura e il dialogo interculturale tra le giovani generazioninell’area mediterranea”, e anche la redazione del sussidiario per la pubblicazione.



Milano, rêverie mediterranea

Spesso, seduto presso la banchina del metrò, ho immaginato di navigare, con la nave della mente, lungo la distesa azzurra e turchese del Mediterraneo. Ho immaginato di avvistare le isole greche che costellano l’Oriente del Mediterraneo; di intravedere, in lontananza, l’Atlante che troneggia nell’Occidente del Mediterraneo; spesso, quando l’aria calda era mossa dal treno in arrivo, ho chiuso gli occhi e ho immaginato la brezza calda del meriggio del sole, che inonda di luce il Mediterraneo. E il Mediterraneo biancazzurro era lì, davanti a me: una rêverie di colori e profumi, di dolci illusioni. Poi ho udito la voce annunciare l’arrivo del treno e l’avvertimento a non oltrepassare la linea gialla; sono salito sulla carrozza, le porte si sono chiuse dietro di me, mi sono seduto per leggere una poesia di Abd al-Wahhab al-Bayyati, La Signora delle sette lune.



Nato a Bagdad nel 1926, egli si impegnò fin dalle sue prime opere poetiche per la rinascita della cultura araba. Negli anni Cinquanta la sua poesia si è votata a un simbolismo accentuato; anzi le sue istanze all’infinito si approfondiscono e lo conducono all’estrema conseguenza dell’esilio come volontaria scelta di vita: viaggiare è come morire per rinascere altrove. Nel 1954 è al Cairo e, riprendendo le posizioni di Sartre, compone poesia come impegno civile, esortando a una presa di coscienza ed esprimendo la propria fede nell’individuo e nel progresso. All’insegna di una possibile conciliazione tra “nazionalismo” come indipendenza di uno stato e “socialismo” come realizzazione di giustizia sociale si reca a Mosca, dove è docente universitario dal 1959 al 1964; poi si trasferisce a Madrid. Ma la sconfitta araba nella Guerra dei Sei giorni del 1967 produce nel poeta una rottura con il mondo reale e lo induce a rifugiarsi in un mondo tutto interiore, cosicché la poesia diviene ancor più intrisa di simbolismo. Il mio viaggio inizia nella metropolitana di Milano; inizia con una poesia il cui ritmo è cadenzato dalla musicalità sabbiosa dell’arabo; inizia con una speranza: quella di stornare la ricerca dello scontro di civiltà che i recenti fatti sembrano aver enfatizzato. La poesia è la medicina per l’anima che vaga tra le isole greche in un sogno di amore mediterraneo: 



La Signora delle sette lune errando nel suo profondo/ Estrae i rubini del giorno mitico – sogna / La stella polare – e il ricordo del tempo immerso/ Nei carri degli zingari incalzanti dietro la pioggia/ La gioia – la luce – canta per la notte argiva/ E il rivo selvatico che arriva dal Tauro/ E dalle alture del torpore in Turkestan/ -canta la Signora delle sette lune-/ errava nel suo/ profondo – e in sogno pregava per la stella/ della sua carovana nel mar Nero/ Disse: ti amo./ Disse: sono partiti gli Argivi, sono giunte navi/ Che coprono la superficie del mare e lasciano a terra./ Disse: partiremo da questa terra per Parigi l’estate/ Prossima, dalle alture del torpore in Turkestan-/ Disse: la morte in questo mondo sta perdendo senso-/ Sulla bocca della notte la mia bocca, rubino del giorno/ Mitico-/ La stella polare brilla alla finestra del mare-Sei lontano-/ In sogno ti vedo camminare solo sui marciapiedi di città Bianche-morire solo, esule in esilio-/ Disse: ti amo-/ Disse: la Signora delle sette lune erra nel suo profondo, /ma l’ho vista nel chiarore del giorno, per strada/ Disse: in questo mondo la morte ha/ cominciato a perder senso, mi sei lontano, ti sono lontano. 

Il mito ellenico rifluisce nelle ondose lettere dei caratteri arabi, quasi a costituire un ponte di parole che unisce le due sponde del Mediterraneo, dove il salvacondotto è la solarità di uomini che si guardano, e dialogano standosene sulla sponda l’una di fronte all’altra. 

Il mio regno è il patrimonio dei miei avi/ Si estende, si estende/ Ne attendo l’estensione/ la veggente, a Tebe dalle sette porte,/ disse: non guardare indietro/ la rosa disse all’estate,/ sul mio destriero per il Mediterraneo /seguo la voce della veggente/ verso le isole elleniche…

La metropolitana arriva al capolinea, tutti scendono velocemente con i ritmi di una città che consuma le sue energie al lavoro e si rilassa con qualche chiacchiera all’happy hour. Le periferie cingono d’assedio Milano con i palazzoni-dormitorio e con le sue aree dismesse, segno di un passato ancora recente di industrializzazione.

Rifletto, a ogni mio passo, sul senso del viaggio che ho intrapreso nel mio Mediterraneo. Ogni passo è il baratro, che si apre sotto i miei piedi, dove si estende l’abisso dei misterici fondali di questo mare: camminare è come il camminare sulle acque biancazzurre rinnovando, ad ogni passo, la fede nell’umanità di ogni uomo che è in cammino verso il proprio sogno… perché, come scrive Demetrio Duccio, “a una stessa radice, i termini medi-tare e medi-terraneo sono legati. Come non riconoscerli nella loro gemellarità? L’uno presuppone un lavoro mentale che si fa tramite tra il pensiero (l’interiorità) e la natura delle cose (l’esteriorità); l’altro è simbolo esemplare di un mondo di terre e di mari minori, della grande laguna insulare e peninsulare dove traghettare di costa in costa. È l’emblema di un desiderio di conoscenza, di incontri e migrazioni, di approdi e di vie di fuga, di tentazioni che invitano i passi a inoltrarsi all’interno. Il Mediterraneo non è più quel che al tempo, non solo di Omero, fu e rappresentò per l’immaginario dei suoi popoli che lo abitavano e verso cui erano mossi. Percorrendo cammini divenuti leggendari, da ogni punto cardinale. Eppure, è nel suo spirito che occorre ritrovare quelle tracce. È il Mediterraneo del pensiero che occorre trovare; solo questo ci è del resto ormai concesso. Rinunciando a viaggi che, per distanze non a piedi, sono diventati ridicoli, dedicandosi invece a cercare quei tratti di strada e soste, pur brevi, dove avvertirne gli echi più antichi. I luoghi e lunghi accessi a essi in cui possiamo supporre germinare sentimenti, pensieri, folgorazioni”.

Scendo dalla metropolitana, sballottato, dalla marea di gente che giganteggia dirigendosi verso l’uscita dalla propria nekuia quotidiana, dal proprio viaggio nei cunicoli che fa pulsare di vita i sotterranei metropolitani di Milano.

Spesso il traffico, in superficie, è rumoroso e maleodorante. Ma lo stress e la stanchezza di un corpo e un’anima, logorati dalla frenesia, fanno provare odio verso questa città, ma poiché l’odio è parte dell’amore, e il motivo di questa integralità è ignoto, talvolta si è persino tentati di provare amore per quella stessa città… Ogni mio passo, nel travolgimento dell’ondata umana, diretto verso la scala mobile, prefigura i meditabondi cammini lungo le rotte del Mediterraneo.

“Dove la meditazione” — continua Duccio — “apparve, prima ancora che qualità della mente, come invenzione delle parole da assegnare alle cose. Con le quali quel mare, quei mari locali, diventarono il Mediterraneo. Non solo un immenso luogo, piuttosto un mondo, piuttosto l’essere in quanto tale. Dove tutto fluiva pur restando uguale a se stesso. Dobbiamo cercare, più che i siti attraversati da frotte non mediterranee di turisti, i loro simboli. Fingendo di fermarci per sempre in quel sentiero, per abbandonarlo e inseguirne un altro. Senza ambire a trovare ancora un frammento di natura o di città mediterranea intatta. Per imparare, semmai, a raccogliere gli indizi di ciò che sollecitò l’apparire del sentire filosofico e poetico. Che sviluppò tanto la teorizzazione di quei mondi che solo ora noi tentiamo di ricondurre a uno solo, quanto il desiderio di rappresentarlo”.

Sono sulla scala mobile, con il Mediterraneo dentro, e fuori il resto del il mondo. Sto risalendo verso la luce di un cielo estivo, presago del colore del mio mare. Dietro a un uomo sconosciuto, di spalle un altro uomo sconosciuto: una lunga fila di sconosciuti che sta ferma sulle scale mobili, indifferente, pronto ad uscire alla luce del sole. E con loro riemergo dai sotterranei e scopro che Milano è affondata nel mare.

Ecco la mia rêverie: il Mediterraneo ha sommerso questa città con le sue acque azzurre e turchesi, e ora posso navigare veleggiando sulle parole lievi di al-Bayyati. 

Il poeta aveva tenuto un forte legame con il proprio paese mentre era a Madrid, rappresentando, ancora una volta, la cultura del suo Iraq sino alla rottura definitiva col governo di Saddam Hussein, al tempo dell’invasione del Kwait e della successiva Guerra del Golfo nel 1990.

Grazie a un verso di al-Bayyati, in questa mattinata di giugno, ho potuto vedere, a Milano, vele bianche veleggiare sulla pagina azzurra del Mediterraneo: ed è qui che voglio fuggire… Il rivo selvatico che arriva dal Tauro e dalle alture / Del torpore in Turkestan disse alla signora delle sette lune:/ oh luna dell’amore, vieni fuggiamo verso i monti della notte/ verso Parigi, vieni a cavalcare/ le onde del mare – l’Egeo –/ le isole elleniche hanno lasciato a mare le passerelle,/ il mare è ingrato, Milano è emersa tra vele bianche-/ vieni fuggiamo verso i monti della notte-vieni-

Il poeta, tuttavia, sarà costretto a chiedere ospitalità alla Giordania, dove viaggerà con il destriero alato della sua poesia non più sulle onde del Mediterraneo, ma sulle dune del silenzioso deserto, un paesaggio caro alla sua anima araba. In Giordania infatti morirà nel 1999, forse con il pensiero espresso nel verso successivo: Ai confini del deserto-/ Disse: in questo mondo la morte ha cominciato a perder senso. Mentre sto risalendo in superficie sulle scale mobili verso la Stazione Centrale, il Mediterraneo ha sommerso i palazzi di Milano con il tumultuoso ritmo delle sue onde.

 Sto per prendere il treno e incominciare la mia avventura di viaggiatore e lettore della sua gran pagina azzurra: il veggente cieco/legge nello specchio del Mediterraneo/appare la mia padrona,/la Signora delle sette lune.

(1 – continua)