Cosa accadrebbe se nel valutare ciò che succede tenessimo più in considerazione le spinte dell’inconscio?

In un contributo apparso su Repubblica di questa settimana, Massimo Recalcati si chiedeva se non sia un po’ sospetto che ogni atto, ogni pensiero, ogni gesto di Matteo Renzi susciti tanto odio nella sua parte politica. Lo psicanalista milanese evidenziava una ragione nascosta, non direttamente riferibile a quanto fa o pensa l’ex premier: la sua “eterogeneità inassimilabile”. Le sue origini culturali e antropologiche, diverse da quelle del vecchio gruppo dirigente del Pd, rendono Renzi doppiamente colpevole per “avere messo la sinistra di fronte al suo cadavere”. Infatti, questa, “anziché fare il lutto della sua identità”, preferisce “imputare all’eterogeneo la colpa della sua morte (già avvenuta)”. Si tratta di una valutazione tutt’altro che politica, ma che offre una spiegazione convincente delle dinamiche umane trattate perché pesca al fondo dei meccanismi mentali che — come sappiamo bene tutti — ci determinano.



Non è secondario domandarsi: quanto consideriamo gli elementi inconsci che agiscono in chi osserviamo? Chi osserva quanto mette “del suo” nell’interpretazione che dà dei fenomeni? 

Ad esempio, quanto delle nostre ambizioni impossibili trasferiamo in uno stadio di calcio? Quanto delle nostre personali paure proiettiamo sulla presenza degli stranieri? Quanto, sotto il nostro vittimismo siamo spinti da un inconscio desiderio di avere solo diritti, o di esprimere la nostra aggressività, o semplicemente dal bisogno di essere compresi e accettati? O ancora, quanto nel nostro amore per gli animali è nascosto il tentativo di ribellarsi a quella che soffriamo come una vita poco vita?



Non pare realistico spiegare i fenomeni umani solo utilizzando informazioni coscienti. Le motivazioni delle scelte che si fanno, i loro effetti, il rapporto con il contesto e con gli altri, non sono sufficienti a spiegare quanto accade. Bisogna accedere ad un altro livello, più profondo, che chiama in causa idee universali (archetipi), meccanismi inconsci personali (appresi in certi momenti della vita e di cui è difficile liberarsi), o addirittura meccanismi nevrotici strutturati.

Se crediamo nella positività della realtà, non possiamo non condividere la funzione che Carl Gustav Jung riconosceva all’inconscio: non farci del male, ma compensare una visione cosciente troppo parziale o unilaterale, e in questo modo avanzare sul cammino dall’autorealizzazione “allargando in grande misura il campo della personalità”. In una parola, conoscere di più la natura umana.



Come si può facilmente intuire non si tratta di andare alla ricerca di elementi per giustificare qualunque comportamento. Capire non toglie responsabilità, ma semmai la accentua. Nel film “A beautiful mind” il protagonista, affetto da schizofrenia, impara col tempo a riconoscere e a convivere con i suoi fantasmi.

Familiarizzare e valutare le spinte inconsce di cui siamo portatori arricchisce la prospettiva su noi stessi e sulle nostre relazioni, permette di posizionare in modo più adeguato l’emotività, di non ridurre il nostro pensiero al bianco e nero, di conoscere e accettare di più noi e gli altri non accomodandoci dietro ai nostri schemi deresponsabilizzanti. In una parola, a trafficare con la vita perché cresca in noi e intorno a noi.

Ma bisogna che prima o poi ci abituiamo a familiarizzare con quello — poco — che sappiamo dei nostri meccanismi mentali inconsci. “Pensare è molto difficile. Per questo la maggior parte della gente giudica”, disse ancora Jung, non senza una certa ironia.