Il boom economico era alle porte, ma i segni del secondo conflitto mondiale erano ben visibili per le strade, nella vita quotidiana degli italiani immortalati da Leo Longanesi nelle pagine de La sua signora (Longanesi 2017). Pubblicato per la prima volta sul finire degli anni Cinquanta del secolo scorso, poco dopo la morte dell’autore, il “taccuino” — in cui ritroviamo intuizioni ed epigrammi, appunti di viaggio e conversazioni che fotografano l’Italia dal 1947 al 1957 — è tornato sugli scaffali delle librerie con la storica introduzione di Indro Montanelli e la postfazione di Pietrangelo Buttafuoco.



Giornalista, scrittore, editore, pittore, incisore e molto altro, nell’ultima sua opera “nata orfana” Longanesi svela la tragedia della “commedia italiana” come pochi altri sono stati in grado di fare. Sarebbe inutile soffermarsi sul perché, dalla sua morte sino a pochi anni orsono, la cultura italiana lo abbia pressoché relegato nel dimenticatoio. Fin troppe parole sono state spese su casi analoghi d’oltralpe, a partire da Louis-Ferdinand Céline fino ad arrivare a Drieu La Rochelle passando da Ernst Jünger. Per restare in Italia, è sufficiente citare Giuseppe Berto. Longanesi, il borghese che pensava come un antiborghese, l’anarchico che amava l’ordine, il frondista del fascismo e l’antifascista, con il suo personalissimo stile, poi, era tutto e il contrario di tutto. “Sempre polemico — scrive Montanelli —, aggressivo, pugnace, sempre contropelo e controcorrente, sempre inatteso ed estemporaneo, senza nessun freno, nemmeno quello della più elementare educazione, Leo ripagava chi pagava le consumazioni con tonnellate di sconcertanti paradossi, nessuno dei quali falliva il bersaglio”. Ed è proprio partendo dalla sua singolare personalità, perché ogni pagina è intrisa dell’esistenza dell’autore, che va trattata La sua signora. Ma non bisogna farsi “ingannare dallo sfolgorio delle sue stelle filanti. Era un uomo triste, che sghignazzava per non singhiozzare, e aveva chiara la coscienza del fallimento di tutti valori che difendeva. Un po’ perché, guidato com’era più dal gusto che dalla logica, non amava che le battaglie perdute”. 



Nel “taccuino” di questo Don Chisciotte sono annotati pensieri che tratteggiano uno spaccato a tutto tondo dell’Italia degli anni Cinquanta, con i suoi vizi e le sue virtù. Longanesi, da giornalista di razza, sapeva muoversi agilmente tanto nei “salotti buoni” quanto fra le strade frequentate dal popolo, dalla gente comune, dando vita così a delicate pennellate che compongono veri e propri ritratti sociologici e antropologici. Nel 1955 scrive: “Non s’era mai visto nei ceti poveri, prima d’ora, tanto desiderio di signorilità. Lo stile popolaresco scompare; l’operaio beve acqua minerale e limonate; il contadino ha in uggia gli abiti ruvidi e robusti di un tempo, e il tipo distinto che fino a venti, trent’anni fa, era giudicato una femminuccia oggi piace moltissimo”. 



Abbandonata l’ironia, appunta: “Nell’antica abbazia, il colore degli affreschi conserva qualcosa di marino (…). Ancora ci risuona all’orecchio la parola udita a Comacchio: Amen. E’ lo stesso lamento di gente che ha fame e prega. Anche qui, anche qui a Pomposa, il lamento della fame risuona; la fame ancora passeggia scalza su questi antichi mosaici: perché l’abbazia è sorta nel mezzo della palude affamata; e la sua bellezza è nata dall’incontro di una civiltà che muore con una fame che non vuol morire”. 

La penna caustica di Longanesi ha però la meglio, è interclassista e non fa sconti: “All’indomani di una serata trascorsa con gente della buona società si cerca invano di ricordare se non il senso di un discorso, almeno il suono accorato o lieto di una parola; e più si pensa a quelle ore perdute in conversazione, più sembra impossibile che la gente possa vivere con tanto scarso interesse alla vita”. 

Non mancano poi gli aneddoti dei suoi viaggi all’estero: “Ieri sono andato a pranzo dalla contessa K. C’era tutta l’aristocrazia della vecchia Russia che abita a Parigi. Alla fine del pranzo, i russi gettarono i calici. Ma la faccenda non funzionò, perché i bicchieri non si spaccavano: erano infrangibili. I poveri russi avevano le lacrime agli occhi: anche quella tradizione moriva!”. 

E’ affidato a Buttafuoco il compito di estrapolare le memorabili stilettate del nostro, cogliendone tutta l’attualità: “Roma, per esempio, quella che abita il ‘taccuino’ di Leo Longanesi è ancora quella di oggi, Annus Domini 2017”. Il Bel Paese non è cambiato: “Quel che resta di Roma è stato difeso finora dall’indolenza, dalla scarsa ambizione — scrive Longanesi — e dalla estrosa povertà del popolino che a fatica si adatta a nuovi mestieri e a nuove abitudini. E, quando esso vi è costretto, riesce con la propria sciatteria a trasformare in cosa vecchia tutto quel ch’è nuovo”. 

Cosa resta, invece, del celebre direttore de Il Borghese, del suo sarcasmo, della sua velata malinconia? Al di là delle poche pubblicazioni, la certezza di aver perso un gigante del giornalismo, un Maestro, con la emme maiuscola, quella stessa utilizzata da Montanelli nel ricordarlo: “Insopportabile, cattivo, ingiusto, ingrato. Ma un grande Maestro. L’ultimo”.