Chi ama Giotto (e chi non lo ama?) non deve perdere la mostra “Magister Giotto”, aperta fino al 5 novembre alla Scuola Grande della Misericordia a Venezia, a cura di Giuliano Pisani e Alessandro Tomei, con la direzione artistica di Luca Mazzieri.

Non è una mostra come le altre, perchè non ci sono dipinti: tutto è affidato alle riproduzioni perfette offerte dalle nuove tecnologie. Immagino subito la vostra obiezione: ma la realtà dell’opera, l’emozione di vedere da vicino la tavola che l’artista ha toccato con le sue mani, ha dipinto col suo pennello e che è giunta a noi attraverso la distesa dei secoli, dove vanno a finire? La immagino perché era anche la mia, di obiezione. Visitando però “Magister Giotto” sono arrivata ad alcune conclusioni che ora vi propongo.



Intanto i due generi di mostra, quella che chiameremo digitale e quella classica, sono eventi diversi che non vanno paragonati tra loro. L’una non sostituisce l’altra, come il cinema non ha sostituito il teatro. Non a caso quando il cinema cominciò a diffondersi qualcuno lamentò che la proiezione eliminava la presenza viva dell’attore: e aveva ragione, solo che il cinema è — appunto — un’altra cosa rispetto al palcoscenico. Bisognerebbe allora fare come il Manzoni, quando nei Promessi Sposi ricorda gli economisti del Seicento che discutevano accanitamente se bisognasse investire nell’agricoltura o nell’industria, e commenta: “L’uno e l’altro, alla buon’ora… Son due cose come le gambe, che due vanno meglio d’una sola”.



Le mostre di riproduzioni, insomma, non possono e non devono prendere il posto della visione diretta. Nel caso però di un maestro che ha dipinto soprattutto affreschi, ovviamente intrasportabili e spesso di difficile leggibilità perché magari alla sommità di alte campate o in altri luoghi poco visibili, ecco che una eccellente riproduzione può offrire qualcosa che una mostra classica non può dare. Ma anche l’ingrandimento, come accade in un grande schermo cinematografico, rivela qualcosa che poteva sfuggire. Per tornare a Giotto, la mostra veneziana fa cogliere molti particolari delle sue opere in tutta la loro intensità. Pensiamo alla drammaticità dei suoi volti. Giotto è un pittore di gridi che si esprimono nello sguardo, prima ancora che nei gesti. Forse quando Dante scrive “e ora ha Giotto il grido” non voleva solo affermare che ormai aveva più fama di Cimabue, ma anche che le sue figure gridavano silenziosamente. Indimenticabile, per fare un solo esempio, è lo sguardo di Cristo crocifisso che vediamo (al meglio) a Venezia.



Alle riproduzioni, a volte monumentali, a volte di misura piccola ma sempre accuratissima, si aggiungono poi in mostra le suggestioni di un testo, letto da Luca Zingaretti, e di un commento musicale: uno sforzo di divulgazione serio, che segue il maestro nelle sue principali stagioni (Assisi, Roma, Firenze, Padova, ancora Firenze) e, anche se non disdegna di trasformarsi in narrazione teatrale, per esempio quando parla della cometa di Halley, non si scosta da una filologia approfondita. 

La grandezza di Giotto, padre del realismo della pittura occidentale, si dispiega così in tutta la sua evidenza. E, anche, in tutta la sua religiosità, perché esprime come pochi il mistero dell’Incarnazione. Del resto ogni cosa, in Giotto, ha un corpo. Anche gli angeli, anche l’aria. Non ci sarebbero stati Masaccio, Michelangelo, il barocco, se alla metà del Duecento non fosse nato nel Mugello questo allievo dell’arte di Roma, che nelle sue opere dà vita al primo Rinascimento pittorico del millennio.