Scrive papa Francesco: “Amo la scuola perché è sinonimo di apertura alla realtà” e Julián Carrón commenta: “Jungman definiva l’educazione come una ‘introduzione alla realtà totale’, cioè in ultima istanza al suo significato. Perché senza riconoscerne e affermarne il significato, una persona non si interessa veramente alla realtà” (La bellezza disarmata, Milano, Rizzoli 2015, p. 220).



Vorrei introdurre da un punto di vista particolare, quello della traduzione, il tema dell’apertura alla realtà in quanto rapporto con l’altro e dell’incontro con la sua diversità, come possibilità di riconoscere quel significato senza il quale l’interesse alla realtà viene meno. Un’idea che si fonda sul presupposto che l’altro, nella sua differenza, è una risorsa perché è attraverso quest’incontro che possiamo capire chi siamo, possiamo vedere la strada per il significato. Apertura alla realtà dunque perché l’incontro con l’altro apre prospettive impensate, strade inesplorate, ci fa mettere in cammino. Costringe a interrogarci su chi siamo e ad esercitare la libertà di cui siamo capaci nel definirci. Heidegger in La poesia di Hölderlin (Milano, Adelphi 1988) quando annuncia la legge del ritorno, citando il poeta tedesco scrive: “Il proprio deve venire appreso esattamente come l’estraneo… Il servirsi liberamente di ciò che è proprio è la cosa più difficile di tutte”.



Certo dobbiamo essere molto liberi per aprirci all’incontro. “Incontrare”, “incontro” un termine che nella sua stessa etimologia è un paradosso, una sfida, composto come denominativo nel tardo latino da in e contra, quest’ultimo con il significato di davanti, e quindi “stare di fronte”; ma uno stare di fronte che per non essere “contro” deve saper ospitare conservando la differenza.

Credo che in questo senso incontrare sia in fondo tradurre. Che addirittura un’educazione alla traduzione possa essere il modello per un’educazione all’incontro.



Possiamo tradurre in due modi: addomesticando l’altro o incontrandolo nella sua differenza. Possiamo tradurre presupponendo che la nostra lingua sia il mezzo linguistico privilegiato, intoccabile nella quale il senso deve entrare senza far danni. “Si tratta di introdurre il senso straniero in maniera che esso sia acclimatato, che l’opera straniera appaia come ‘frutto’ della lingua propria” (Antoine Berman, La traduzione e la lettera o l’albergo nella lontananza. Macerata, Quodlibet 2003). Da questa posizione derivano due conseguenze: “si deve tradurre l’opera straniera in modo che non si ‘senta’ la traduzione, la si deve tradurre in modo di dare l’impressione che è ciò che l’autore avrebbe scritto se avesse scritto nella lingua traducente (ib., p. 30). Da questo punto di vista tradurre significa ricondurre l’estraneità alla propria identità, assimilandola. Possiamo tradurre rapinando l’altro e camuffando i suoi beni nella nostra cultura senza far scorgere che erano suoi o possiamo mostrare l’altro in quanto altro.

Mostrare l’altro in quanto altro, ma nella nostra lingua. Bella sfida. Ma è una sfida che ci provoca, perché permette di guardare le cose da un diverso punto di vista.

Le culture e le letterature sono piene di questo ruolo rinnovatore dell’incontro con l’altro nella traduzione. Possiamo ricordare il viaggio in traduzione di Aristotele nel Medioevo che attraverso le traduzioni arabe giunse in Spagna e permise di diffondere, oltre ai due soli testi circolanti prima del XII secolo (Categorie e De Interpretatione), la maggior parte delle opere del filosofo. Oppure la nascita della nostra letteratura, che nell’incontro con la letteratura provenzale ha creato quella cosa nuova che è la nostra poesia. O la letteratura del Siglo de Oro in Spagna, impensabile senza l’influenza e le traduzioni dei testi italiani. In tutti questi casi l’incontro con una tradizione diversa e il desiderio di tradurla ha creato un qualcosa di nuovo e di grande. Lo sguardo della traduzione ha donato orizzonti nuovi.

Lo ha detto papa Francesco: “Lazzaro ci insegna che l’altro è un dono. La giusta relazione con le persone consiste nel riconoscerne con gratitudine il valore (…) Il primo invito che ci fa questa parabola è quello di aprire la porta del nostro cuore all’altro, perché ogni persona è un dono, sia il nostro vicino sia il povero sconosciuto (…) Ogni vita che ci viene incontro è un dono e merita accoglienza, rispetto, amore” (Messaggio del Santo Padre Francesco per la Quaresima 2017) . 

La traduzione allora può essere pensata come educazione perché educa appunto a questo incontro. Educa mettendo in gioco un paradosso, che consiste nel non cancellare l’altra lingua ma di ospitarla nella propria. Conservare ciò che è estraneo nel proprio può educare a comprendere perché l’altro non è mai un ingombro ma una risorsa. 

Tradurre dunque ci sfida perché non possiamo parlare di traduzione realmente se non mettiamo in gioco il fatto che fra due lingue, due culture, due mondi c’è sempre un qualche tipo di differenza. La più ovvia è che abbiamo a che fare con due realtà che hanno due codici linguistici diversi. Tuttavia le differenze toccano non solo le relazioni fra le lingue, ma soprattutto quelle fra culture in cui i testi e i discorsi circolano.

Umberto Eco (Dire quasi la stessa cosa. Esperienze di traduzione, Milano, Bompiani 2003) suggerisce che tradurre significa dire “quasi la stessa cosa”. È proprio quel “quasi” che ci provoca perché non sappiamo bene che limiti porre ad esso. Certo un criterio oggettivo non c’è, sappiamo che nel corso della storia testi che oggi considereremmo traduzioni sono stati visti come testi indipendenti e viceversa. Oppure nel terzo tempo di East-Coker (), il secondo dei Quattro quartetti, Eliot traduce interi brani di Juan de la Cruz, si tratta di traduzione o di un testo indipendente? Ancora Eco: “Quanto deve essere elastico quel quasi? (…) Stabilire la flessibilità, l’estensione del quasi dipende da alcuni criteri che vanno negoziati preliminarmente. Dire quasi la stessa cosa è un procedimento che si pone all’insegna della negoziazione” (ib.).

Ma cosa in realtà è oggetto di negoziazione? Il traduttore in effetti oltre al testo deve negoziare molte altre cose, ad esempio i possibili reciproci pregiudizi e questi non sono fatti linguistici ma piuttosto culturali. Non si tratta di un’osservazione irrilevante perché se la diversità di lingua rivela essa stessa una barriera di intelligibilità, la differenza culturale rivela le barriere di accettabilità e mutua fiducia. Dunque nella traduzione vengono negoziati diversi livelli comunicativi che non riguardano soltanto l’aspetto linguistico. Questa negoziazione implica un lavoro continuo di mediazione che crea i presupposti del dialogo. 

Il concetto di mediazione introduce un aspetto importante. La mediazione è un tipo di comunicazione che serve a gestire i conflitti, presuppone delle differenze e la soluzione delle differenze attraverso una negoziazione per opera di un mediatore. Si tratta di un processo in cui c’è un cambiamento nell’atteggiamento delle parti. Se pensiamo alla traduzione come mediazione e al traduttore come mediatore, possiamo interpretare il processo traduttivo come un vero e proprio processo di argomentazione. Come scrive Paolo Nanni (Paolo Nanni, Eddo Rigotti e Carlo Wolfsgruber, a cura di, Argomentare per un rapporto ragionevole con la realtà, Milano Fondazione per la Sussidiarità 2017): “Argomentare è la ragione applicata alla vita nelle sue dimensioni conoscitiva e pragmatica e opera, non solo ma anche e tipicamente, nell’ambito di ciò che potrebbe stare anche in un altro modo, di ciò che può essere cambiato, migliorato o distrutto, dall’agire degli uomini”, aiuta, in altri termini, a trasformare il conflitto in dialogo. Nel caso della traduzione chi dialoga non sono persone fisiche ma due culture che si confrontano, in cui le due parti vengono sottoposte ad un rapporto che può anche essere conflittuale ma che può essere risolto. 

È proprio in questo senso che la traduzione svolge un ruolo educativo, diventa il luogo in cui questi conflitti possono essere accolti, in cui le culture non si scontrano ma vengono ospitate.